martedì 24 febbraio 2009

Porci con l'aureola

Ultimamente mi sorprendo sempre più spesso a bestemmiare fra me e me con voce sommessa. È una reazione automatica, mi viene in mente qualche figuraccia del passato e mi accorgo di cosa sto dicendo che ho già citato la divinità e sono a metà del porco. A questo punto un tempo mi interrompevo, ma sempre più spesso proseguo fino alla fine.

Fino ad un anno fa non bestemmiavo mai. Motivi vari, un po’ perché mi sembrava stupido nominare uno che non sai neanche se ti ascolta, un po’ perché non si sa mai. Anzi, lo facevo, ma in maniera ipocrita, scomodando indebitamente fratelli e sorelle dei miei genitori al posto di chi di dovere.
Poi sarà che l’unico italiano col quale parlo ogni giorno è un veneto, ma ho cominciato a prenderci gusto e ora ho sviluppato una specie di dipendenza. Così ora il porco scappa in automatico.

Ecco, è successo di nuovo, or ora, giusto per chiudere il paragrafo. E poi quando il porco lo sento pronunciare dagli altri non riesco a trattenere le risate, mi suscita un’ilarità che non riesco a spiegare manco a me stesso. Ma perché? Forse perché è una sfida alle convenzioni sociali? In fondo in Italia è l’ultimissimo tabbù, l’unica cosa che provoca l’immediata radiazione dalle tv nazionali. Non si dice quindi, ma se lo si sente ci si rallegra come bambini. E poi il porco è di molto virile. Il rispetto che si tributa nei miei paesi al vecchietto che la domenica digerisce l’ostia al bar scaricando tutte quelle che si è tenuto l’ora prima in chiesa è emblematico. E el Zizi G., noto amico di mio padre, persona più acculturata di quanto vorrebbe far sembrare, che riesce ad apparire ignorante e quindi genuino e vero tirandone giù una caterva anche quando risponde al telefono. E le acrobazie di mio zio Bruno, la maestria con la quale anni fa, ad un pranzo di Natale con ospite speciale direttamente dalla parrocchia dei SS. Gervasio e Protasio, è riuscito a virare il nome di Dio invano in quello di un noto idrocarburo altrettanto invano.
Nella cultura contadina si contano più porci che uomini e io tributo rispetto a questo genere di tradizioni. Però il porco preferisco non dirlo, ché come si diceva non si sa mai, un giorno potrebbe tornare utile. In fondo non si va a chiedere la raccomandazione ad un politico dopo aver ripetuto più volte che è un porco, per giunta probabilmente nel suo campo uditivo.
E poi, per dirla tutta, trovo un po’ perversi quelli che non credono in Dio e poi lo vanno a nominare ogni due parole. È un po’ come quelli che odiano Berlusconi, ma studiano a memoria ogni suo misfatto.

Ma è incredibile come sia difficile smettere.È incredibile e pure un po’ perverso. Possibile che ci goda così tanto solo perché è vietato? E allora perché non godrei altrettanto frantumando finestre con un cric o palpando il culo a vecchie vecchiette per strada. Nel secondo caso la risposta è ovvia, ma nel primo? Forse sono un delinquente in potenza?

E poi, perché se dico che il porco è Zeus, Giavè o Krishna al massimo sento una risata? La maestra non ci aveva forse detto che esiste un solo Dio, che prende nomi diversi e se vogliamo possiamo chiamarlo anche Deuterococco? E pensare che a Krishna, Allà e Giavè i maiali piacciono anche meno che al dio cristiano. E se uno è animista e mettiamo che veneri un dio che è un maiale, non può neanche dire porco porco, oppure la bestemmia diventa una cosa positiva? Era per questo che gli antichi cristiani consideravano gli animisti blafemi?

Ma soprattutto, se avessero ragione gli altri animisti, non quelli che adorano il porco, ma quelli che sostengono che antenati e mortacci propri siano gli unici dei da adorare? Andrei all’inferno per tutte le volte che ho dato del porco a mio zio?

mercoledì 18 febbraio 2009

Tu vuò fa' l'americana, ma sei nata in DDR


Puzzenroito non puzza e non è manco propriamente un roito, solo che questa è l’italica pronunzia del suo germanico cognome.
Puzzenroito è una mia collega a metà. Lavora da noi, come traduttrice in-house, ma la sua house è una casa, perché sta a Roma, da dove ci contatta ogni giorno via Skype. Questa settimana però è possibile assistere a una delle sue rare manifestazioni.

Sembra un ritratto classico della prima regina Elisabetta, con il suo sguardo austero, la carnagione cremisi e i capelli folti e ricci sempre raccolti in un crocchio rialzato che li divide in due mucchi sopra la testa con il resto ad uscire dall’elastico che li argina come una diga minuscola ma dal fulcro ben misurato. La versione da fumetto giapponese della regina, per la precisione, con le sopracciglia rasate completamente e sostituite da due sgriffi color oro antico simili agli intagli sulle casse dei violini.

La sua austerità si riflette anche nel modo di lavorare. Efficiente, serio, preciso. “Tecnologia tedesca”, diceva la pubblicità degli scaldabagno. Pare che quando lavorava qui la sera tornasse a casa di corsa. Tenete conto che in bicicletta ci vogliono trentacinque minuti.
Donna austera, si diceva, parla un ottimo italiano, ma con l’italico marito solo inglese. Per non lasciarsi mettere sotto, mi ha detto.

Il suo inglese preciso e impeccabile invece le permette di mettere sotto parecchia gente. Soprattutto il suo marcato accento americano, che si riflette anche su intercalare, esitazioni ed espressioni metalinguistiche.
Una da sposare, direbbe il marito, anzi, una da sposà. Ma c’è uno e un solo motivo che la rende insopportabile ed è il suo perfetto accento americano. Sentire quelle R bronchiali e i suoi periodici “oh boy!” mi fa perdere i nervi.
Vi capita mai di voler prendere qualcuno a schiaffi solo perché è fastidioso il suo accento? Solitamente gli americani sono fra i primi della lista (con fiamminghi, danesi, svizzeri tedeschi e ci metterei anche i lussembughesi, se non fossero protetti dal WWF come razza in via di estinzione).

Peggio dell’accento americano c’è solo chi americano non lo è, ma lo vuò fa'.
Perché di grazia fare lo gnuiorchese, se vieni dalla periferia di Magdeburgo? È come se un milanese andasse a Napoli cercando di imitare Totò. Probabilmente però i napoletani lo prenderebbero a male parole. Gli americani sono più tolleranti, ma non crediate che non si chiedano perché diavolo questa pollastrella parla come un fottuto yankee. Mi venisse un colpo! Mi viene da pensare agli inglesi di periferia, che dimostrano la loro educazione a pane e tabloid assumendo l’accento della regina.

Qualcuno si sforza ad adottareun accento americano o inglese perché crede che gli anglofoni se lo aspettino o lo apprezzino, ma non credo sia così. Credo invece che il loro punto di vista sia “in Inghilterra si parla inglese con accento inglese, negli Stati Unti con l’accento americano e a Parigi con quello francese". In realtà mi è stato detto che diversi americani credono che in Europa si parli inglese come madrelingua (italiano, spagnolo e francese come dialetti) e trovano un italiano che spicca inglisce normale come per noi un romano che sbotta “ahò”.

Ma la cosa peggio della Puzzenroita è che perfino le espressioni più naturali le vengono in inglese, addirittura le esclamazioni di sorpresa (oeuuuuh). Verrebbe da dirle di parlare come mangia, non fosse che ha già manifestato la sua preferenza per la cucina italiana e non mi va di sentirla invocare li mortacci de chicchessia.

Un paio di giorni fa ha battuto ogni record, si è rivolta alla conterranea collega Sandra chiamandola Seeendraeh come una valley girl del Midwest.
E c’è mancato davvero poco che la mandassi in diretta a pijasselo in der posto, tradendo però clamorosamente la mia cantilena delle valli alpine.

venerdì 13 febbraio 2009

Guanti randagi

Guanti, continuo a trovare guanti. Ogni giorno per strada, lungo il fiume, decine di guanti di ogni tipo. Di pelle, di lana, manopole e guanti. Sempre uno solo. L’altro manca. Pedalo, mi guardo intorno, ma nessun riscontro simmtrico, sempre solo guanti spaiati. Un mistero, perché uno che perde un guanto se ne accorge, no? Fa freddo, non ci si gira in bici senza guanti. È capitato purammè di perderne uno, mentre tatteravo con l’ippodio, pedalando la mia via. Concentrato sulla musica, l’avrò lasciato cadere. Stupido. Ricordo solo che a un certo punto ho avuto la sensazione che le mie mani fossero più libere di quanto credessi, ma non ho collegato il fatto alla perdita del guanto.
Poi però me ne sono accorto che mancava. Sono tornato indietro e l’ho trovato, in mezzo alla strada. Sarebbe stata una novità, un guanto da sci, lungo un fiume dei Paesi Bassi.

Ma gli altri che perdono i guanti non tornano indietro? Forse è una scusa per farsene regalare di nuovi. Ma allora perché non lasciano cadere anche l’altro?
Ce n’è stato uno, di guanti, che è rimasto allo stesso punto sul ciglio della strada per una settimana. Gli altri faccio in tempo a vederli una volta, poi qualcuno li raccoglie. Ma chi? È bello pensare a uno che ne ha bisogno, ma non può essere. In questa parte della città non ci sono senzatetto.

Secondo me è il vecchietto gobbo, quello che sorpasso ogni mattina, lui col suo rampichino blumetallo col manubrio troppo basso, che lo costringe a procedere in una posizione da record dell’ora, con le chiappe puntate verso l’alto. Come quel quadro di David Hockney, le linee rette e moderne del rampichino che si oppongono al profilo rugoso del vecchietto, dando una sensazione di movimento. Praticamente solo un’idea, perché procede con la lentezza di uno che non ha posta elettronica da controllare. Spesso lo trovo fermo, scende dal rampichino, mette la mano destra a visiera e guarda la campagna di Amstelveen, due chilometri di pascoli selvaggi, che terminano dritti davanti ad un grattacielo di uffici. E lui i grattacieli non li vede, col suo occhio fermo a qualche decennio fa. Lui, nel freddo di fine inverno, con la sua bella, scaldati da una bottiglia di jenever e una coperta patchwork tessuta da lei, con centinaia di guanti intrecciati.

martedì 10 febbraio 2009

Tutti i miei coinquilini: storie di vite vissute

Ho appena annunciato a Baldo che forse a fine mese me ne vado di casa.
Chi ha avuto la grazia di leggere il post precedente saprà che Baldo non è mio padre, né il mio ragazzo, ma semplicemente il mio fedele coinquo da quasi un anno.
Baldo non si chiama Baldo, né tantomeno Baldovino, ma la sua versione olandese, ricca di grafemi che la maestra Marisa non ha ritenuto utile insegnarmi e fonemi che non ho mai sentito nei miei primi sei mesi di vita, quelli dove si assimilano i suoni.
È un artista, di quasiprofessione (è un quasifotografo che dipinge a tempo perso) e di temperamento. Uomo solitario, una passione per la solitudine agreste che riesce a coltivare nel punto più tranquillo del centro d’Amsterdamia. Come già accennato, zero amici, mille amiche, tutte viste passare a casa una e una sola volta, nessuna mai fermatasi per la notte. Quando arrivano le ragazze, Baldo si chiude in soggiorno e non ama che io entri. Ci ha pensato già la prima volta a mettermi in guardia. All’inizio credevo che fosse gaio e il soggiorno chiuso svolgesse le mansioni di un confessionale, ma ora invece sono convinto che sia quello che in tedesco si chiama Frauenversteher, “capitore di donne”, solitamente inteso con accezione negativa, ma non in questo nostro caso. Baldo è un uomo sensibile, come traspare dai suoi bianconeri su pellicola. Un uomo tenero che gioca a rugby. Un gigante buono, di quelli che visti da lontano sembrano tutti tonti. Ma lui ti spiazza, perché non lo è.

C’è chi fa liste delle tipe che si è fatto, io invece sono più noto per i coinquilini che ho avuto. Nel senso che ci ho abitato insieme, ovviamente.
Prendendo in considerazione solo i paganti affitto ed escludendo quindi genitori e famigli, Baldovino è il mio numero ventiquattro. Una cosa come uno al mese per due anni, ma sparsi nell’arco di nove anni, uno dei quali però in appartamento da solo e più di sei mesi sommati con la famiglia. Dodici e mezzo italiani (sei toscani, due bolognesi, un ciociaro, una ligure, un siculo, il Pugliese e mezzo piemontese), tre tedeschi (uno dell’Est), tre irlandesi, due slovacchi, uno a testa per Spagna, Francia e Olanda, mezzo greco/etiope. Tredici ragazzi, undici ragazze, fra le quali una sola partner, sei lavoratori accertati, uno stagista, parecchi studenti e diversi nullafacenti.

Mi piace pensare che un giorno, il mio secondo romanzo si chiamerà “Tutti i miei coinquilini” (il primo invece non ha titolo, ma nel peggiore dei casi sarà un Moccia alternativo su quattro ragazzi in una valle imprecisata fra i monti che mettono su un gruppo rock, il più grande rimpianto della mia vita valligiana. Chiusa parentesi. “Tutti i miei coinquilini” sarà basato su una storia vera, come i filmoni americani e analizzerà la psiche di alcuni soggetti selezionati.
Parlo di psiche, perché quello psicologico è un tema dominante nel mondo del conquilinaggo. L’apetto stimolante (fino ai 25 anni) e fastidioso (dopo) di questa fine arte è proprio passare al’improvviso da sconosciuti totali all’intimità. Cristiano per esempio era pagano, un uomo misterioso e di molto metallaro che in facoltà chiamavamo il Figlio del demonio (con accento bolognese). Tutto ciò fino alla prima sera di convivenza, quando passo da camera sua per andare al cesso e lo trovo disteso sul letto nudo al lume dei suoi ceri rossi, mentre fa a malapena in tempo a coprirsi un durone di una certa portata con il giornaletto porno che aveva in mano.

E la mattina dopo ha la faccia tosta di dirmi che viste le circostanze crede di avere il diritto di pagare un affitto più basso.

La lezione di vita è che nessuno è normale, tutti abbiamo le nostre assurdità, e non parlo di piccole stranezze, tipo usare il bagnoschiuma degli altri, cosa che peraltro più di metà dei miei coinquilini maschi ha fatto con me, ma di vera demenza. Una cosa che ho imparato dai miei coinquilini è che ogni essere umano ha una storia personale potenzialmente degna di un romanzo o di un film e una concezione della vita degna di un libro di filosofia.

Volevo dare tre esempi e stabilire una serie di awardszz, ma come si fa a recensire un coinquilino in cinque righe? Vorrebbe dire tradirlo. In cinque righe si può parlare di una persona, ma la storia no, quella necessita come minimo di un novanta minuti in sedici noni.
No, facciamone invece una serie monografica a puntate. Aggiungiamo un pizzico di vogliurismo e gli elementi di un serial televisivo e parliamo per una volta di qualcun altro su questo blogghe dove mi sembra di parlare solo di me stesso.
Il seguito ovviamente alla prossima puntata.

domenica 8 febbraio 2009

Distanze e proporzioni

È passato un mese e ho cominciato a rendermene conto. Sono arrivati i libri e la guida che ho ordinato su Amazon, ho scaricato documentari, la febbre ha lasciato spazio alla ragione. Ma rimane la sorpresa. Non mi sarei mai aspettato che un solo singolo viaggio potesse cambiarmi così tanto, sicuramente non otto mesi e mezzo dalla partenza.

In fondo che sarà mai fare un viaggio? Luha è appena tornato dal Brasile, prendendosi cura di pubblicare su Facebook una e una sola foto, quella in compagnia della tipa che lo ha ospitato, vestita in costume da carnevale, un costume che se lei fosse un uomo si chiamerebbe quasi adamitico, per lei che è una donna non so. Filippo è in viaggio fra Tokyo e Kyoto mentre scrivo. Tina ormai si sposta più di una volta al mese fra le città europee e oggi mi ha scritto che in ottobre vorrebbe vedere Buenos Aires. La mia ex ha sposato un australiano (ho detto “ex” e “sposato”, capito? Devo aggiungere anche “figlia di due anni” per farvi venire i brividi?) e passa ogni anno l’inverno fra vombati e ornitorinchi. E tutti come se niente fosse. Io invece sono in estasi. Sarà che sono sollevato perché sono arrivato alla conclusione che se parto non è per non essere da meno degli altri o per avere qualcosa da raccontare, ma solo per curiosità. Per vedere qualcosa di nuovo e in fondo anche per toccare con mano cose che finora ho visto solo in foto o in tivvù. È come se dovessi assicurarmi che esistono davvero. oppure sarà che voglio provare di persona come ci si sente ad essere io il diverso, ma più ancora perché la diversità voglio vedere come è fatta.

La mia famiglia mi ha trascinato in giro per l’Europa per tutta la mia infanzia e gliene sono grato. Ma è stato proprio vedere le tante piccole differenze fra popoli così simili in luoghi così simili ad incuriosirmi da sempre verso popoli e luoghi che sono veramente differenti.

Così da piccolo collezionavo i tappi con le bandiere dei succhi Valfrutta e passavo giornate a sfogliare i sei volumi di una specie di enciclopedia che aveva comprato mia madre sulle nazioni del mondo. Un altro compare della mia infanzia casalinga era l’atlante De Agostini che mi stancavo di sfogliare solo quando mi rendevo conto che se il mio paese non c’era, chissà quanti altri paesi non ci saranno stati, il che mi innervosiva non poco. L’ho preso in mano tempo fa, il vecchio atlante senza copertina, dentro è pieno di percorsi disegnati a matita. Ora c’è Google Maps, il mio giocattolo preferito. Passo ore a contemplare città e deserti dall’alto e calcolare distanze, non in chilometri, ma a occhio, perché fin da piccolo è sempre stato evidente che durano di più i 36 chilometri di statali e provinciali fra il mio paese e Tridento dei 50 di autostrada tra il mio capoluogo e quello dei crucchi de noantri. Se poi si considerano anche i chilometri culturali il discorso cambia ancora. Direi una cinquantina per Trento e da là verso Bolzano almeno 100.

E ora la Russia. Spesso, studiando l’atlante, sono rimasto schiacciato dall’enormità di questa nazione dalle proporzioni di un continente. Tante volte ho cercato di prendere le misure, trovare un riferimento per capire le distanze in termini a me noti. Impossibile. La Russia asiatica è la più grande superficie ignota al mondo. La più monotona. A parte qualche fiume, la cui enormità viene schiacciata dalla terra circostante, nessun punto di riferimento fra gli Urali e il lago Baikal. Solo alberi e qualche paese dal nome possente e dal suono siderurgico. Tomsk, Krasnoyarsk, Novokuznetsk, Cheliabinsk. E Omsk, Novosibirsk, posti dei quali non parla nessuno da quando c’è passato Michele Strogoff. Si direbbe che là, il ferro della cortina, sia stato cromato bene. Sono città con nomi per noi facili da confondere, anche se la distanza fra una e l'altra si misura in giorni. Di chilometri culturali, fra Mosca e Vladivostok, per ora ne vedo al massimo un migliaio. ora aspetto solo di essere contraddetto sul campo.

Fra Europa e Asia poi, credo che la distanza all’inizio sembrerà addirittura nulla, sia in termini geografici che culturali. Ci addormenteremo una sera verso Ekaterinburg, per risvegliarci dalle parti di Tyumen, ben oltre gli Urali. La foresta sarà la stessa e mi renderò conto che il mio confine è soprattutto psicologico, o per lo meno immagino che sarà così. In fondo avremo cambiato continente senza neanche passare il confine di una nazione. Forse realizzerò contemporaneamente quanto sia distante da Mosca la Siberia e quanto siano vicine Europa e Asia. Almeno fino a Sühbaatar, Mongolia, dove si dice che cominci la vera Asia.

Infatti se per Tomas il motivo principale del viaggio è il treno, per me è invece la Mongolia. Ci volevo andare da un pezzo. Quando vieni dalle montagne, tutto ti appare più piccolo. Dalla cima della Paganella si vede il Lago di Garda da una parte, l’imboccatura dell’Alto Adige e la Val di Non dall’altra, con le montagne austriache sullo sfondo. Tra monti, laghi e valli, sembra di guardare un grande plastico e ti viene da chiederti se il mondo non sia davvero più limitato di quanto sembra.
Troppi punti di riferimento. In Europa è sempre così, mancano i grandi spazi e sono curioso di trovarmi in un paesaggio monotono, enorme.
E poi in Europa c’è sempre gente. Anche in alta montagna si incontra sempre un fungaiolo brianzolo o un alpinista bellunese. Ci si può sentire soli, ma non percepire la solitudine. Quello che mi aspetto dalla Mongolia è l'esatto contrario: non sentirmi solo, ma percepire la solitudine, viaggiare con un amico, ma sapere che probabilmente non incontrerai nessuno per un bel po’, perdermi nell’enormità, ma non per conto mio.

Un’enormità che mi affascina. Credo che il tema di questo viaggio saranno le distanze, le proporzioni. Tutto sembrerà più grande e più piccolo. Voglio sentire quanto sono vasti gli spazi della Mongolia, ma anche prendere le misure al mondo, viaggiando da Mosca a Pechino in meno di dieci giorni. Forse vincerà l’enormità, sarò schiacciato da centinaia di chilometri senza punti di riferimento. Forse invece il mondo sembrerà più piccolo. Dopo che hai attraversato la Russia da parte a parte è più facile concepire la vastezza del Sahara e dell’Amazzonia.

venerdì 6 febbraio 2009

Ce la si fa eccome

Baldovino ne ha invitata un’altra. L’ennesima, sempre diverse, solo che stavolta parla inglese. Ungherese, direi dall’accento. Questa volta potrebbe cambiare il finale però, lei potrebbe anche starci. Ma secondo me no. Sono entrato in soggiorno per prendere il pesto pronto e li ho beccati mentre parlavano di rugby. Lui descriveva con linguaggio cauto le doti di mascolinità del nobile sport, lei sembrava scettica.

Il fatto è che Baldo ha messo ancora il disco dei St. Germain, che secondo me porta sfiga.
In realtà la scelta è perfetta. Jazz ripulito da secchionaggine mascolina. Solo il beat, ché alle tipe piace il beat, soprattutto se un po' elettronico.
E poi Baldo sembra tenerci alla sua immagine di classico moderno. Solo che alla fine non abborda mai. Devono essere i St. Germain. Le invita alle 7 e per le 11 sono già via. Però ora sono le 11.10. Boh.

A me dei St. Germain piace l’altro, quello con Sure Thing, ma solo la sera mentre leggo a letto. Ci vuole qualcosa di tranquillo e senza voce. St. Germain, Ali Farka Touré, Gotan Project, Charlie Parker, Tinariwen, Coltrane, Carlos Gardel, con qualche concessione alla Bossanova. Si vede che vado per i 30, eh?
Stasera invece, per contrastare il beat che esce dal soggiorno ho messo Catartica dei Marlene Kuntz, che non ascoltavo da anni. Ma fa un certo piacere adolescenziale ascoltare So-so-so-sonica mentre di là Baldo vorrebbe fare il romantico. Ti dà quell’idea di star facendo una cosa veramente maledetta e alternativa, anche se nessuno può sentirti.

La vera fregatura del rock’n’roll non è la macchinetta tirata a lustro di Malcolm McLaren, ma quei gruppi da cinquantenni tedeschi che cantano roba tipo i love rock forever. Gli Stones ti fanno sentire rock. Ma che vuor dì sentirsi rock? Avere la moto? Vedi Pino Scotto su RockTV e ti accorgi che il rock in quanto rock manda in crauti le cervella. Classic rock. Un po’ di contegno signori.

11.25, la tipa è andata. Che sia timido? O forse non ci vuole provare. Ascolto ancora 1°, 2°, 3° e poi faccio un sopralluogo in soggiorno. Mi sembra perfetto finire con un sano “Non ce la facevamo più”.
Fa maledettamente rock.