venerdì 26 giugno 2009

Silenzio

Una volta ascoltavo un casino di musica. Compravo dischi e lo stereo era sempre acceso. Poi ho cominciato a scaricare. Non compravo più dischi, ma le casse dello stereo, attaccate al computer, continuavano a masticare watt.
Somministravo musica adatta alle circostanze: per leggere a letto mettevo del jazz, se mi muovevo ascoltavo punk. Come milioni di altre persone, anche loro nate per pareggiare.

Poi non so quando è stato, ma mi sono accorto che senza musica la sera a letto leggevo meglio, quindi ho abbassato il dosaggio, concedendomi ampie dosi di Morricone e Coltrane solo per i non rari momenti di demotivazione al lavoro. Poi anche al lavoro ho smesso. Nel mio ufficio si discute parecchio e le cuffie uccidono la conversazione. Alla fine ho capito che la musica migliore è il silenzio.

Nel silenzio potevo rilassarmi, ma dalla soddisfazione del desiderio nasceva altro desiderio. Se mi concedevo un’ora di silenzio, il giorno dopo avrei avuto bisogno di due. Poi anche il sibilo delle macchine che passavano in strada ha preso ad infastidirmi e alla fine i vicini ghezellici, anche se la sera alle undici per sentirli devi andarci di stetoscopio.

Un giorno forse diventerò come quelli che vedevo studiare nella biblioteca antica dell’università di Colonia, coi loro tappi di cera rosa come simbolo di un impegno da esibire a tutti i costi.

Ho scoperto che niente rilassa quanto il silenzio. Il che pare scontato, ma non lo è, almeno per quelli che per rilassarsi ascoltano la roba dell’età nuova. Che poi una mezz’ora di canti tibetani o di elettronica allungata, non lo nego, crea la sua porca atmosfera, ma in caso di sovraesposizione a uno gli viene da saltar su e spaccare tutto. E sono pericolosi, sti canti tibetani, perché generano un circolo vizioso. Uno crede di rilassarsi e allora li ascolta ancora di più, non sapendo che in realtà, un po’ alla volta, si uccide dentro.

Una volta, in spiaggia, a Galway, ho trovato fra la sabbia la copertina di un CD. Si intitolava “Musica per rilassarsi alla guida”, in francese. Un viaggio troppo lungo, con un disco solo da ascoltare, non poteva che convincere lei a lanciarlo dal finestrino.

E poi credo sia come lo yoga, farlo ti rilassa, ma se invece di alzarti alle sei a fare yoga dormi un’ora in più, qualcosa mi dice che starai molto meglio. In parallelo uno pensa che la musica farà bene, ma il silenzio fa meglio. Alla ricerca della variante complicata delle cose, si perde il valore della semplicità.

È che in questi paesi così bassi e così densi, il silenzio è merce più rara degli sciatori professionisti, che a loro volta sono uno meno dei panda. Qui gli alberi sono concepiti come entità isolate, oppure confinati in riserve chiamate parchi, che se c'è il sole la domenica paiono ombrelloni sulle spiagge di Rimini. È solo per un qualche miracolo fisico-equilibristico che palloni da calcio non colpiscono barbecue che finiscono su cani che saltano addosso a biciclette che finiscono la loro corsa nel mezzo di grigliate con tenda e bandierine arancioni.

E a giudicare dal casino notturno, gli olandesi sono in grado di dormire con una discoteca in soggiorno, o sotto lo stesso, separata solo da quattro stecche di legno e tarli.

La tipa che abitava sopra la mia testa quando condividevo con Baldovino era solita mettere musica, ogni mese una canzone diversa, ma per tutto il mese sempre e solo la stessa, in momenti vari, fra cui le 2 di notte e le 7 di mattina del sabato e della domenica. In uno storico lunedì mattina ho avuto il privilegio di ascoltare Halo di Beyoncé Knowles ininterrottamente dalle 6.40 alle 7.30. Quando Baldo le ha cortesemente chiesto di risparmiarci l’ira degli dei, questa ha detto che là sopra, al suo posto, avrebbe potuto esserci una famiglia con un bambino piccolo, e allora sì che l’avremmo rimpianta.

Dove abito ora è invece al vaglio una decisione in merito all’opportunità di tenere aperta la finestra di notte e respirare aria fresca, oppure chiuderla, perché fra strada, ferrovia e aerei, il rumore è assordante. Notare che l’aeroporto è dall’altra parte della città, ma il boato dei reattori è una preghiera buddista che prosegue ininterrotta, anche di notte.

Così, spesso l’unico modo per dormire è infilarsi le cuffie del trappolo bianco nelle orecchie. Di solito le raccolte di Bossanova funzionano che è un piacere. E il silenzio ce lo si gode di giorno.

mercoledì 24 giugno 2009

Non so voi, ma io, meglio i cinesi

Qui nei Paesi Piatti, quelli che scrivono sui muri sono molto più originali dei loro colleghi italiani (vedi un po' sto coso qui). O forse non hanno fascisti o comunisti da combattere, ma questa non è una scusa valida, perché volendo avrebbero un paio di altri problemini scottanti, tipo gli immigrati o chi li vuole mandare tutti ad una casa loro che probabilmente non hanno mai visto. Con la regina non se la prende nessuno, perché qui la monarchia è una cosa seria, un po’ come in Italia, con la differenza che la causa non è la ridicolaggine dei coronati, come nel nostro caso.

Pare che i graffitari, qui a livello del mare, si interessino addirittura di economia. Pare, perché dopotutto non serve leggere Economist, Sole 24 Ore o chi ne fa le veci qua sotto, per sostenere che i nostri prodotti vadano sostenuti a spese del fantasma del Fatto in Cina. Sono quelle cose che tutti danno per scontate. Giocano a tuo favore, e allora non ci pensi più di tanto, è vero e morta là.

C’entra, c’entra, perché sulla mia via verso il lavoro, qualcuno si è premurato di scrivere su di un paio di muri “Fuck Made in China”, che, lo ammetterete, non è la tipica cosa che ad un ragazzino con l’acne viene in mente di spruzzare sulle pareti.

Ma poi perché “Fuck Made in China”? Perché, dico io, perché a Sacramento sì e a Pechino no? Perché sì all’Oklahoma e no alla Manciuria? Perché se lo fanno in Cina non va bene, ma in Nordamerica sì?

E non sono mica domande retoriche. Ho già lavorato per due aziende americane e posso confermare che l’effetto della loro introduzione sul mercato europeo è lo stesso che la gente teme dall’avvento dei cinesi. In pratica hanno introdotto in Europa il metodo americano e la cosa non può che sfavare non poco.

Le vacanze ridotte verso standard americani, gli straordinari non pagati, che è vero, in Italia non sono una novità, ma qui sì, il contratto a tempo indeterminato che avevo quando lavoravo in Irlanda, che poteva essere ridotto a brandelli con un mese di preavviso e nessun obbligo di risarcimento: queste sono le cose che sfavano. Nelle aziende di proprietà olandese queste cose non succedevano, ma un po’ alla volta stanno arrivando anche là, perché se per vincere una gara di nuoto oggidì ci vuole il costume Speedo, il costume un po’ alla volta se lo procureranno un po’ tutti.

E poi ci sarebbe anche l’influenza del modo di fare affari americano sul mio boss olandese. Introduce i discorsi con "so che suonerà americano", parla di librini su come avere successo negli affari che gli consiglia il grande boss che siede oltreoceano. Usa parole come “proattivo”, anzi, peggio, le scrive sulla lavagnetta, e ormai un problema è diventato una sfida. Ma deve ancora imparare a convincerci che il lavoro è più importante della vita privata e non sa spiegare perché una “9 to 5 mentality" deve essere per forza una cosa negativa. Cose che a uno gli verrebbe da formulare enunciati che hanno le stesse iniziali del Partito Democratico, ma sono molto più distanti dalle posizioni del clero.

E così si va avanti, dando la colpa alla crisi, che tanto sta buona buona e non risponde. E nel mentre da Gnuiorche è arrivato l’ordine di abbassare i prezzi pagati a chi traduce come libero professionista, così che mantenere un traduttore in ufficio è diventato più caro che spedire le traduzioni ad uno che lavora sette giorni su sette per una paga da minatore.

I cinesi hanno un metodo diverso. I tuoi sette giorni su sette te li lavori perché di sì, non per dimostrare che sei proattivo. I cinesi non rompono i coglioni e in verità, in verità vi dico: quando arrivano sti cinesi, a salvarci da chi non solo ci vuole fare il culo a strisce, ma vorrebbe anche convincerci di farlo per il nostro bene?

sabato 20 giugno 2009

Biglietti del tram

Questa storia potrebbe cominciare come un barzelletta: c'è un italiano, un tedesco e un francese.
Potrebbe, perché ad onor del vero gli italiani sono due, così come i francesi, e c’è anche uno spagnolo. Altro particolare, tranne i due italiani, le altre sono ragazze, ma nelle barzellette si sa, c’è Pierino e mai Pierina.

Insomma, ci sono, anzi, c’è un italiano, una tedesca, una francese e un paio di altri, tutti colleghi, seduti sul terrazzo in pausa pranzo. L’italiano sono io, che all’università sono sempre stato Il Crucco, in quanto “alto, biondo e con gli occhiali azzurri” e perché una larga percentuale degli italiani crede che a casa mia si parli tedesco. Alla francese invece lo stereotipo le sta che è un biggiù, lo stereotipo del francese moderno. Incazzosa, brontolona, ma anche socievole e simpatica, di madre autoctona e padre tunisino, cresciuta prima da unica nera in un paesino agreste del profondo Bordolese e poi nella periferia di Tolosa, in circostanze non propriamente semplici, o perlomeno così suole narrare nelle sue storie di vita vissuta.

La capigliatura di Carlos Valderrama, ma in nero, pelle scura, più color lampada che nera, ma senza lampada, faccia a cuneo, occhio da pirata, espressione truce. Dalle sue storie si intuisce che nella vita è stata spesso discriminata per la sua aria losca, che la punisce nonostante sia socievole, intelligente, sempre disponibile ad aiutare, tra l’altro nonostante lo sguardo che uccide, affatto inadempiente agli attuali canoni estetici.

È una ribelle, contro tutto e contro niente, basta essere contro. Parla di episodi di disonestà con la passione con la quale io parlo di calcio. E il suo pensiero è da tutti i punti di vista lo stereotipo di quello che i telegiornali chiamano "disobbediente” o “nogglobbal”. Lo è a tal punto, che prima di cominciare a parlare di un argomento, sai già cosa ne pensa. Divieto di fumare nei luoghi pubblici: contraria, fumare è una libertà. Politica: talmente a sinistra da non sentirsi rappresentata da nessun partito di sinistra. Musica preferita: troppo ovvio per essere riportato. Posto più figo d'Europa: Barcellona, sogno nel cassetto: lasciare il lavoro e viaggiare per il Sudamerica in un furgoncino Volkswagen. Per dire, è una di quelle persone che pensano che chi cena prima delle 9 sia uno sfigato, chiedine il motivo e rimarranno interdetti, perché i dogmi non si mettono in discussione.

Sul terrazzo, in pausa pranzo, la tedesca introduce una discussione su chi non paga i biglietti del tram. Alché la francese fa “io non lo pago mai il biglietto”, con il candore e la sicurezza di chi si sente forte nel giusto. L’italiano, che ormai tutti conoscerete come uomo di saldi principi, nonché noto filosofo da €0,99, rimembrando discussioni precedenti, ribatte che il biglietto del tram può anche non pagarlo, ma dopo non venga da me a lamentarsi dei servizi pubblici.

Il bianco risalta particolarmente su sfondi scuri: quando i suoi occhi si iniettano di sangue, li vedi quasi sparire. Risponde che no, non è giusto, paghiamo già così tante tasse che tram, bus e mille altre cose dovrebbero già essere gratis per tutti. Tutti in coro rispondiamo che i mezzi pubblici non sono proprio un bene di prima necessità come il sistema sociale e previdenziale e che se fossero gratis ci troveremmo a pagare ancora più tasse, ma lei si impunta. Il dogma è dogma. Vuoi essere di turbosinistra? Allora la pensi così o taci. Oppure ti fondi anche tu come gli altri il tuo partito personale per raggiungere lo zerovirgola alle elezioni.

A questo punto nelle barzellette c’è il colpo di scena, una battuta che risolve la situazione a favore dell’italiano, un finale imprevisto. Questo italiano invece si arena, forse in quanto crucco decide di lasciar perdere per il quieto vivere e si imbarca in un mare di riflessioni personali. Riflessioni sul dare le cose per scontato. Su come chi sia contrario alla società, checché la cosa significhi, pretenda il massimo dal sistema sociale, su come probabilmente non siamo programmati per accontentarci, sui mali dell’autoindulgenza.



(Il recente aumento di frequenza delle battute sulla turbosinistra è da intendersi come casuale e non va interpretato secondo un'esegesi volta a rivelare l'imborghesimento dell'autore)

mercoledì 17 giugno 2009

La vita su e giù

Nell’Europa di sopra l’ambizione è una cosa positiva, quasi normale. In Italia invece si stima chi si accontenta.

Io, che penso relativo, sono per la pariteticità dei due approcci.

Quello che cambia è che al Nord ci si stressa di più (ma meno di quanto possa sembrare da laggiù), ma si va avanti più in fretta, giù da noi invece si avanza meno, ma ci si gode la vita. Gli italiani sono pasciuti col loro ovetto sodo giù per lo stomaco, mentre qui si attende il giorno in cui si spennerà il pollo, sapendo che forse, a quel pollo, ti sentirai in colpa a tirargli il collo per fare un kip satè alla surinamese.

Quello che si accontenta sa di non poter migliorare la sua situazione, per lo meno in modo onesto. Sta bene dov’è, ma non gli dispiacerebbe stare meglio e in fondo ci spera, che un giorno gli capiti quell’occasione poco onesta.

Così, meglio lasciare tutte le porte aperte, perché l’italiano ama dirlo: “non si sa mai”.
Per questo l’italiano teme chi combatte l’evasione fiscale, perché un giorno spera di poter evadere le tasse anche lui. Senza impegno, ma non si sa mai.

Gli italiani, nell’oclocrazia, ci si sentono placidi e tranquilli. Vedono il futuro. Lascia che si rubi, e se allo Stato mancano i fondi, beh, paghiamo i politici quanto vogliono, ma a patto che ci tolgano la responsabilità di pensare ai problemi.

venerdì 12 giugno 2009

Chilometri di fabbriche e campi

Sarà pittoresco, sarà sfiga. Per me più la seconda. Oggi ho beccato due ponti alzati. E non lo dico con l’aria altezzosa del consumato viandante, ma con quella atletica dall’inguine in giù di uno che da quando ha traslocato si trova a passare più tempo sul sellino che su Facebook.

I ponti alzati sono belli. La chiatta che ci passa sotto è romantica. Ma la mattina alle nove e qualcosa devo essere in ufficio e la cosa più romantica che sono in grado di concepire lungo il tragitto è la barbetta caprina del mio omonimo collega, che sembra la paletta di un contrabbasso. Quindi la selva di bici incodate non è un interessante assembramento di destini paralleli, ma un tappo per la ciclabile. Della chiatta non mi saltano all’occhio i fiori alle finestre come un davanzale tirolese, ma all’orecchio l’assonanza con “chiappa”, e l’omino in uniforme che sorveglia il ponte dalla cabina di direzione non è un bonario marinaio d’altri tempi, ma la versione mallavàta del cpt. Findus.

A parte questo, sono ancora nella fase nella quale uni il paesaggio lungo il nuovo percorso in bici se lo gode. C’è tanta bella roba nuova da vedere, i primi giorni. Poi l’abitudine, la ruttìn (i francesi scrivono tchao, e io col cazzo che scrivo routine) e più tardi la noia di rivedere esattamente le stesse cose ogni giorno, il graffito sotto il cavalcavia che ora mi pare originale, mediterò di ricoprirlo di pece e piume, il ponticello rialzato tanto romantico mi verrà voglia di livellarlo per risparmiarmi quei due metri di salita e l’airone di gesso fuori dalla casa delle fate molto ignoranti (almeno a giudicare dalla chincaglieria in mostra), beh, quello non so proprio come lo vorrò trattare, ma probabilmente in modo scortese, sia chiaro fin da subito.

È un altro percorso agroindustriale, quello che mi schiaffa nel mio ufficio nel centro di Chiesavecchia sull’Amstel, una specie di tris di primi del paesaggio nederlandese. Un tracciato misto con placidi centri abitati nel verde con le loro brave Basilikumweg e centri industriali fatti di Kosmonautenstraat. Poi rimane un pezzo del vecchio tratto lungo l’Amstel, dall’altra parte del fiume stavolta, quella selvaggia, con le strade ruvide di asfalto smangiato e le barche ormeggiate dei pensionati di quassù, sempre in coppia, come lumache siamesi che aspettano il sole per uscire e piazzare il tavolino da pic-nic sui due metri due di strada fra la riva e lo stradone.
Sulla stessa riva sulla quale ieri ho visto un airone e un cormorano, a meno di un metro l’uno dall’altro, meno di due da me, posati su di una trave di legno sdraiata. E i soliti due svassi in amore, sempre in amore sti svassi, ma stavolta davvero a pochi metri da un potenziale obiettivo. E la macchina fotografica la porto sempre solo quando non serve.

La porto per fotografare i camion lungo quei duecento metri di zona industriale che attraverso. C’è un rimorchio da autotreno dipinto a mano con motivi esoterici egizi e la scritta “agape”. Dietro c’è scritto “Humanitarian transport – Romania - Holland”. Interessante. Dietro al rimorchio un furgone da film storico, con le fiancate di legno e dietro ancora uno strano camion anfibio. Una specie di mostra estemporanea di automezzi assortiti, solo che al momento di fermarmi e scattare la foto non ho voglia di frenare e vado avanti senza foto.

La porto per fotografare la pozza dello svincolo. C’è questa autostrada, che attraverso su di un ponte sopraelevato, dal quale si scende da una specie di svincolo ciclistico circolare, in mezzo al quale c’è uno stagno che neanche nelle pubblicità dell’Irlanda. Acqua blu di Prussia, erba alta, canne e ninfee. In mezzo ai pagafrati (it: giunchi) vive un cigno che ha fatto un nido in questo ambiente ancora incontaminato, ma circondato di viabilità massificata. E io ho provato a fotografarlo, sto stagno, ma non ho ancora trovato un’inquadratura che gli renda giustizia. Se inquadro la strada sembra una noiosissima pozza di città, se non la inquadro diventa il solito stagno da incantesimo, che se l’otturatore schioccasse nel momento in cui dall’acqua esce una mano di donna che impugna una spada ci potrei fare la copertina di un romanzo fantasy. Non riesco ad unire natura e carreggiata, ma un po’ è anche perché, ancora, non mi va di fermarmi nel mezzo della discesa e rovinare l’ebbrezza della rincorsa. Lo ammetto, manco di devozione alla causa.

La parte lungo l’autostrada è la più selvaggia. Basta non guardare la strada e il resto sono campi. Campi incolti, con fiori dal gambo peloso, piante d’anice e dappertutto erba alta due metri, che sembra di pedalare nei campi come il bambino di Io non ho paura. E poi sulla strada incassata fra le pareti d’erba mi aspetta sempre un airone che vola via a fatica solo quando ormai sto per investirlo, o le mie amiche folaghe, che al momento sono indaffarate a tirar su la prole, questi polli grigio temporale con la pancia bianca, così arruffati da sembrare più grandi dei genitori.

Credo che conserverò per un po’ l’immagine idilliaca con me che pedalo sull’asfalto ruvido, con le nuvole nere, l’acqua blu di Prussia e l'erba alta due metri, né troppo caldo, né troppo freddo, almeno qualora intabarrato e incanottierato, che ascolto musica intonata alla situazione meteorologica satinata. Seria, ma serena.

L’epilogo piacerebbe a Gianni Mura, è un tratto in pavè, anzi, in mattoni disposti a spina di pesce, una curva parabolica in leggera pendenza, che per intercessione di qualche santo è discesa quando sembra salita e discesa anche quando sembra discesa, chiusa fra casette di mattoni bruno-viola che trapassi da parte a parte se guardi dentro la finestra e alberi che la coprono con i rami, che a uno gli viene quasi da pensare di essere ad una corsa di altri tempi, tipo la Parigi – Rubè, visto il pavè. Il telaio ruotato che rimbalza sui mattoni mi fa intonare zazzarazzà, zazzarazzà, zazzarazzara zarà zazzà.

martedì 9 giugno 2009

Ciao nonna, sai, ora convivo con una

Io neanche lo immaginavo che le 9 di mattina le facessero anche di sabato.
Lo dicevano gli amici, quelli che solitamente fanno cose, ma il giorno del trasloco ne ho avuta la prova. Ho fatto fatica a trascinarmi fuori dal quadrato di gommapiuma che per 49 settimane mi ha fatto da materasso. In un anno la gommapiuma si è frollata e negli ultimi mesi ho dormito a contatto diretto col suolo. Per fortuna che in virtù del vuoto nero della cantina sulla quale era steso, una cantina alla quale solo i gatti potevano accedere, il pavimento di legno tarlato era elastico e flessibile.

Appena alzato, nonostante l’ora scarsa all’arrivo di Robertinho e i sacchetti sparsi in terra in attesa di cingere i miei beni, non ho potuto resistere al richiamo della doccia, dall’alto di quei quindici scalini che la mattina presticchio, per poco meno di un anno, sono stati solo poco meglio dell’ultimo tratto del Cerro Torre, con la ringhiera alla quale dovevo tenermi come in cordata.
La doccia che ha raccolto tutti i miei rifiuti, quelli di Baldo e quelli dei poes. Il genius loci vuole infatti che dopo aver dato lo straccio in tutta la casa, avendo l’ultima stanza da pulire un pratico buco sul fondo del pavimento, basti vuotare tutto là e lasciare che se ne occupino gli abissi, con il loro intestino a sifone e task force di pantegane per digerire.

Hè hè, esclama Baldo dal giardino. Sì, ma intanto io ho quarantacinque minuti per mangiare due biscotti olandesi, che comunque dal punto nutritivo equivalgono ad un mulino bianco con tanto di rivestimento esterno a stucco, bere il mio te forte e inscatolare i miei averi.
La confezionatura dei beni è una corsa a cronometro, ma ce la si fa, almeno quanto basta per salvare le apparenze. Quando Robertinho suona il campanello, non mento se gli dico di aver quasi finito.

A questo punto, mentre K e lui caricano i pacchi in macchina, raduno di corsa viveri e roba da bagno, spargendo penne rigate marca Super de Boer, che come ora sapete, significa Super il Contadino. Al termine dell’operazione conveniamo che mentre lui va a Diemen in macchina, K e io cerchiamo di arrivarci in bicicletta. Un’ora sui pedali non spaventa nessuno in Nederlandia, ma molti potrebbero perdere coraggio, speme e desio confrontandosi con la tortuosità del percorso attraverso Zuid, gli svincoli, i cavalcavia e gli scambi ferroviari del limbo della zona industriale e la planimetria labirintica di Duivendrecht, dove da dietro ad ogni siepe ti aspetti che esca la regina di picche.
Infatti un paio di volte ci si perde, ma osservando la stella polare e chiedendo informazioni ben assestate, arriviamo alla via del principe Bernardo, a Diemen, un paesone-dormitorio che un tempo ha dato il nome all’uomo che ha scoperto la Tasmania. Sti cazzi, verrebbe da chiosare.

Ora si tratta di portar su la roba, disfare i pacchetti, mettere in ordine, demolire il letto vecchio, aspettare che l’IKEA porti quello nuovo, andare in stazione centrale a fare i biglietti per K, al Melkweg per quelli del prossimo concerto, il tutto risolvibile con un’altra ora e mezza di pedivella, per poi tornare a casa, aspettare che torni Tinho ad aiutarmi a montare il letto nuovo parlando di calcio.
Almeno lui, metà olandese e mezzo brasiliano, da questo punto di vista mi dà grandi soddisfazioni.

A fine serata sento il peso delle mie responsabilità. Mi torna in mente mia nonna, che la settimana precedente aveva usato la parola “convivere”, alla quale non avevo ancora pensato e sento inconsciamente il dovere di adottare l'adagio di mio padre dopo un’estenuante giornata di coidura (per gli extratrentini, leggasi “raccolta mele”).
Sdraiato sul letto esclamo: “certo che abbiamo fatto un gran lavoro oggi”, seguito da un “eh?” che cerca conferma e instaura complicità, volto a coinvolgere in un’atmosfera di cameratismo chi mi sta di fianco nel sentimento di essersi fatti un mazzo così e poterne infine giustamente godere i frutti.

K, che fa due ore di ginnastica al giorno, più svariati altri esercizi per mortificare le sue carni, che non considera neanche nel conto, perché tanto le va di farli, che la mattina si alza alle sei perché le viene in mente una cosa interessante da fare più tardi e da scrivere sull’agenda immediatamente, che poi torna a letto, ma esce quasi subito perché ha già programmato intensamente la giornata, mi risponde “beh, credo di aver avuto una giornata normale”.

Se raccolgo queste sue parole insieme a quelle di altri europei dalla parte di sopra che ho già avuto modo di incontrare, penso che allora forse forse mi sa che è anche quasi un po’ vero che noi italiani in fin dei conti un tantino fannulloni lo siamo.


Nota: so che la cosa guasta l'effetto, ma a onor del vero mia nonna è più liberale di quanto sembra e ha un'ottima opinione della mia convivente. Giusto per mettere i puntini sulle E, come fanno qui quando scrivono il nome della nostra cara patria.

domenica 7 giugno 2009

Dalle stelle alle stalle

Le lingue straniere servono (anche) a rendere le cose più affascinanti. Lo sa bene Caterina Caselli, che Paint It Black suona meglio di Tutto nero, lo sa soprattutto Masini, che Chissenefrega non rende proprio quanto Nothing Else Matters.

Non lo sanno quelli che qualche anno fa, alla radio, dedicavano alla morosa Fuck It di Eamon [Fanculo tutto, di Aimone, N.d.T].

Ne sono invece più che coscienti tutti quelli che hanno provato a capire il testo delle canzoni degli Strokes, o dei Primal Scream, dei Suede (Nitrato animale? Pisellino metallico?), perfino dei miei adorati Sonic Youth, almeno fino agli anni Novanta.


Ebbene, che ci si creda o meno, che poi uno ci crede per forza, voglio dire, che interesse avrei a mentire? Che ci si creda o meno, dicevo, non vale solo per l’inglese, ma anche per quella specie di tedesco semplificato che parlano qui in giro. Mano a mano che impari la lingua non puoi che assistere inerme al crollo di diversi miti. Niente musica ovviamente, ché quassù preferiscono ballarla che ascoltarla. Ma basta una delle prime lezioni del corso di olandese, quella sulla fattoria, per imparare che boer vuol dire contadino, mentre koe è la mucca.

Sembrano parole innocue, ma possono avere conseguenze disastrose a livello calcistico, tipo che se koe significa mucca, ergo Ronald Koeman sarebbe Ronaldo Vaccaro, mentre e soprattutto Frankie de Boer diventa Franchino il Contadino. Non tutto è perduto, perché è vero che Van Basten dovrebber essere una cosa tipo “delle Scorze”, ma Basten dovrebbe essere anche un qualche paesino, il che consentirebbe all’eroe della mia infanzia di salvarsi miracolosamente in corner.

E per la serie “ravanare nei cattivi ricordi”, questa è la formazione titolare dell’Aiace che in un tristissimo maggio 1995 ha battuto il Milan in finale di Lega dei Campioni:

1 Eduino Della Saar
2 Michele Viaggiatore
3 Lele Cieco
4 Francolino Regnoterra
5 Franchino Il Contadino
6 Clarenzio Paesedimare
7 Edgardo Di Davide
8 Finidi Giorgio
9 Ronaldo Il Contadino
10 Jari Litmanen, che è straniero, e i cognomi degli stranieri mica si traducono, no?
11 Marco Sopramarte

martedì 2 giugno 2009

Tre o quattro cose che ho fatto a Bruxelles

Alla fine siamo riusciti a sfruttare almeno l’ultimo giorno di ferie comandate prima di Natale.
Siamo stati a Bruxelles, il che in tempo di elezioni europee potrebbe anche avere il suo significato, sia pure simbolico. Noi comunque ci siamo andati a visitare amici. Ma in realtà è del viaggio in treno che mi va di parlare.

L’Olanda è tutto un centro abitato, i confini si notano solo dai fustini di vetrocemento delle zone commerciali. L’Aia la chiamano Den Haag, ma ufficialmente ha un nome che la descrive bene: s'-Gravenhage. Non so quando si usi il nome ufficiale. Comunque s'-Gravenhage è Blade Runner, fa paura, c’è anche una specie di casa tipica olandese sdoppiata, tutta di mattoni, con il tetto a punta acuta. Solo che non è una casa di tre piani, ma un supergrattacielo. Di mattoni. Ma per raggiungere il mostro è necessario prendere un’astronave monorotaia e doppiare centinaia di migliaia di finestre a nastro, dietro alle quali spuntano computer e sgabellini con le ruote, computer e sgabellini, computer.

Rotterdam invece è una Marsiglia troppo moderna. C’è il porto con gru da film di spionaggio, tubi, ciminiere che a volte sono minareti e silos che spesso sono cupole, palazzi ad uso abitativo che no, forse sono ospedali, ma una città così non può avere così tanti malati.
Parallelepipedi, cubi, sfere.

E il bello è che da qualche parte fra L’Aia e Rotterdam c’è Delft, che è un delizioso paesino anticognolo, con tutte le sue belle cosine tradizionali al loro posto e i suoi bravi canali. Delft si attraversa in un minuto, il tempo di vedere due facciate antiche, un paio di canali alberati e qualche campanile gotico. Poi mezzo parco per drogati e via di nuovo con la geometria.

Solo nel Brabante si vede un po’ di quella che qui si chiama natura, anzi, "natuur", canali periferici con una striscia verde di erba e una rossa di materiale ciclabile, campi verdi e gialli come il detersivo per i piatti, tutto rigorosamente geometrico, così che quando comincia il Belgio uno si spaventa per tutte quelle forme irregolari, così, senza preavviso, ma si consola riscoprendo gli alberi. E poi da Anversa all’arrivo solo case crepate e fuligginose, come se ne vedrebbero in Italia, e la periferia di Bruxelles, fatta di finestre sprangate, case occupate apparentemente vuote e signorine in vetrina come e più che ad Amsterdam, che sembrano in confezione come le Barbie. Nella periferia vuota, sono i primi esseri viventi della capitale del continente.

E poi c’è la gente, sul treno. Non tanto il tipo di fronte a me al ritorno, che scrive tutto il tempo qualcosa che potrebbe essere un romanzo, senza mai cancellare una singola parola. Chissà come fa: io cancello più di quello che scrivo. Comunque, si diceva, non lui. Piuttosto la coppia seduta sull’altro lato della carrozza. Decisamente fiammolandesi, lui sportivo, capelli rossi sparati indietro con quella leccata di gel indispensabile per non essere pettinati dall'aria in bicicletta, lei alta, sottile, pelle bianca, scottata di giornata, forse addirittura dal sole che filtra dalle finestre del vagone.
Salgono sul treno verso Anversa e lui sprofonda nel suo libro. Lei dice noia senza proferir parola. Si toglie le scarpe e appoggia i piedi nudi sul sedile di fronte, quella dei piedi nudi è un'altra ossessione nordeuropea, insieme alle finestre aperte, apre il finestrino, guarda fuori, si gira, cambia posto, attacca addirittura bottone con una vecchietta che sale sul treno per una decina di minuti. A volte prova a parlare col ragazzo, ma lui non reagisce e continua a leggere, dietro i suoi occhiali da sole. Una volta lui accenna un sorriso da dietro le lenti scure, ma questo è il massimo che le concede.

E poi mi alzo per cercare i bagni e do un’occhiata all'altra gente ed è vero, pochi parlano fra di loro.
Quassù la gente impara questo: non parlare se quello che stai per dire non è completamente sensato, provato e ragionevole.

Così c’è poco da stupirsi di questo silenzio, perché passando tre ore di viaggio in conversazione, può capitare di dire qualche castroneria. Allora la gente preferisce leggere un libro e tagliare testa e testicoli al toro.
Questo non vale solo in treno o solo in Olanda: le cose che vale la pena dire sono poche e spesso già ovvie, così in Germania ho visto coppie sedute nei pub per ore, senza proferire parola, probabilmente sentendosi perfettamente a proprio agio, perché “un buon amico è quello col quale puoi sentirti a tuo agio nel silenzio”, una massima che a me sa tanto di volpe e l'uva.

È qui che ti accorgi quanto sia forte la cultura della parola in quello stivalone col risvolto largo che chiamiamo casa.
Pensi alle autocisterne di miele esplose sulle strade dell’Abruzzo dopo il terremoto, al tiro alla fune con il cavo elettrico che teneva in vita quella povera ragazza, alle vicissitudini delle squadre di Milano, Roma e Torino e capisci a cosa servono calcio, stragi, scandali, Sanremo e Missitalia: per parlarne. Ti accorgi che il segreto dell’attuale primo ministro è quello di spararne una al giorno per darci qualcosa di cui discutere.
E noi polli ci caschiamo come guano di piccione, ne parliamo, abbiamo sempre un’opinione, anche quando non abbiamo idea di cosa stiamo dicendo.

Al Nord no, lasciano che siano gli esperti a parlare, loro tacciono, quando si incontrano trovano qualcosa che non li costringa a conversare, un film o giochi di società, passeggiano in silenzio, se proprio vogliono conoscere gente si iscrivono ai corsi di lingua o di tango. Spesso mi sono chiesto perché così tanti nordeuropei abbiano studiato italiano, ma quasi tutti si siano fermati dopo poche lezioni. Probabilmente non hanno trovato la compagnia giusta e allora tanto vale lasciar perdere.

Poi va a finire che in linea di principio non puoi che dargli ragione sul tacere sulle cose stupide. Solo che poi ti annoi da morire e la conversazione tiene compagnia. E comunque lo sanno anche loro, per questo qui c'è l'alcol, per far parlare la gente.
È qui che realizzi che per la stessa funzione c’è gente che elegge Coso e altra che beve birra, ma nonostante tutto non ce la fai a goderti proprio ogni sorso.