mercoledì 29 luglio 2009

Quel ragno là

Vive bene, quel ragno, fra i doppi vetri della finestra del soggiorno.
È pieno di insetti, là dentro. Loro sono nati per volare, e là per farlo hanno a disposizione massimo massimo due centimetri di spazio. Così finisce che ci muoiono, fra le due lastre.
Quel ragno là invece no, è animale bidimensionale e un piano ce l’ha già. Della terza dimensione, lui, non se ne fa una mazza. Non deve neanche erigere tele, il ragno, ché gli insetti sono già là, bell’e che morti. La sua vita è un po’ così: a buffet.

Grande sì e no come un crocefisso, la forma della cassa toracica di uno scheletro, deve esserci nato, là in mezzo, perché non ci può essere entrato. Deve per forza aver fatto come le pere Williams nelle bottiglie di sgnappa.

E si sa, quando uno ci nasce, finché non gli raccontano che fuori c’è altro, ci sta anche bene, là. E a lui nessuno gli racconta niente, ci mancherebbe, insonorizzato fra due vetri.

E lui, che là c’è nato, deve essersi svezzato da solo, con la polpa dei genitori intrappolati. Ma non sarò certo io a dire che la cosa sia riprovevole. Dopotutto nessun prete era là, a dirgli che non si fa.

E allora viva quel ragno, che di problemi non se ne fa, che non ha capito che la semplicità migliora la vita, ma ne gode inconsapevolmente le piacevoli conseguenze.


Alla fine comunque uno potrebbe e non potrebbe scoprire che quel ragno non vive fra due vetri, ma fra un vetro e una ragnatela, il che è, se vogliamo, emblematico di come se uno vuole, può dire tutto, ma anche il suo contrario.

domenica 19 luglio 2009

Gente civile



In fila davanti al van Gogh/Stedelijk Museum

Mamma italiana a marito indefinibile: Mamma mia che paese civile, hai visto? I bambini entrano gratis!
Mamma italiana ai figli: Avete visto bambini? Voi entrate gratis!
Figlio italiano: E perché?
Mamma italiana: Perché questo è un paese civile, che incoraggia la cultura, altro che l’Italia…


Sto leggendo Ebano, di Ryszard Kapuściński, un libro che parla degli anni africani del giornalista e inviato polacco.
Fra le varie cose, parla del retaggio postcolonale dell’Africa subsahariana, dove la gente tende a sentirsi inferiore all’uomo bianco, che dopo centenni di schiavismo, ai loro occhi pare infallibile e invincibile.

Sembrerebbe che l’italiano soffra di un complesso simile. Un senso di inferiorità che cerca di nascondere prendendosela con chi considera a sua volta inferiore (immigrati) o consolandosi con quello che resta (cucina, calcio). Ma la cosa non mi stupisce. Da quando sono qui mi sono reso conto che culturalmente siamo molto più vicini ai paesi del Medio oriente o all'Africa di quanto crediamo. E non dico che la cosa sia negativa.

Comunque oggi il bambino italiano, figlio della mamma italiana, ha imparato una lezione: siamo inferiori agli europei del Nord. D’ora in poi spiegherà così le storture della politica e della civiltà italiana: siamo inferiori. Magari non lo dirà apertamente, ma ci penserà. Così non crederà alla possibilità di migliorare, ma si rassegnerà al suo stato di italiano mediocre. La userà come scusa quando parcheggerà in divieto o non pagherà il biglietto del tram. "Che ce posso fa’, qui in Italia c’è ggente che fa de peggio”, ma anche: “Che cogno farghe? Qua en Italia se fa anca de pegio”.

Ma torniamo al museo, perché uno entra e all’interno l’italiano è la lingua più parlata, segno che sti italiani proprio così ignoranti non sono. È così in tutti i luoghi storici che ho visto: i visitatori sono soprattutto italiani e francesi. I nordici, quando vanno in vacanza, cercano la natura, non la storia. È questione di come si è stati educati, non credo che uno degli approcci sia migliore dell’altro, ma non si può certo dire che gli italiani siano ignoranti.

Comunque è interessante scoprire come finisce, la storia di Kapuściński (quanto mi diverto a scriverlo, con tutte ste lettere strane). Durante la seconda guerra mondiale molti africani vengono in Europa a combattere per l’esercito coloniale di fiducia e scoprono che anche fra gli europei c’è guerra e miseria, che anche loro si ammazzano a vicenda. Così alcuni di loro tornano a casa e raccontano quello che hanno visto. Gli africani prendono coscienza e cominciano a credere di essere in grado di governarsi da soli, così a poco a poco, cominciando a credere in se stessi, i loro paesi conquistano l’indipendenza.

Le lezioni, se ci sono, traetevele da soli.

Carte


Ultimamente ho Ben Altro a cui pensare. Due Ben Altri di entità tutt’altro che trascurabile.
Una è la mia ultima spiaggia lavorativa, un’ultima spiaggia che qualcuno potrebbe leggere come promozione coatta, a tempo determinato, senza portafoglio e ad eliminazione diretta. Di questa posso solo dire che per sua colpa, sua colpa, sua grandissima colpa supplico ogni giorno la beata vergine Maria, gli angeli i santi e voi fratelli di essere per una volta in grado di lasciare l’ufficio prima delle settemmezza.

Per il resto è solo lavoro, come in “sono solo canzonette", solo che non sono canzonette, ma lavoro, volgare lavoro.

La seconda piaga si chiama “Aangifte Inkomstenbelasting”, per gli amici “Belasting” ed è una sorpresa per i più valorosi fra gli abitanti di questa terra al piano terra.

In italiano si chiama “Dichiarazione dei redditi”, ma il concetto non rende. Si tratta di una lunga gora oscura, in fondo alla quale si cela la ricompensa per tutti coloro che hanno saputo dimostrare doti di pazienza e integrazione.
Uno pensa “Dichiarazione dei redditi” e non serve che mi sbracci a spiaegare che serve pazienza. E fin qui ci siamo. Ma integrazione? Cosa significa integrazione?

Significa sapere la lingua che si parla qui in giro, ma qui ci arriviamo un po' alla volta. Per ora vuol dire semplicemente conoscere la terra dove vivi. Sapere che la regina si chiama Beatrice, che la capitale amministrativa è L'Aia-Den Haag-s'-Gravenhage-The Hague-La Haie e quell'altra Amsterdàm (mica Àmsterdam), sapere chi è Marco Borsato e che l’AZ Alkmaar ha vinto il campionato. Sapere che nonostante tutti, compreso il tuo capo, ti dicano che la Belasting non la devi fare, la devi fare comunque; sapere in ultimo che il motivo per cui tutti, compresi gli addetti alla Belasting ti incoraggiano a non farla è molto semplice: facile facile che facendola ci tiri su addirittura un paio di euri.

La Belasting però è una fiera difficile da domare. Si presenta innanzitutto in forma elettronica. Facile da scaricare, compilabile in modo semplice, qualora provvisti di amico nederlandofono con quindici minuti di tempo libero, abbastanza fidato da rivelargli il tuo stipendio.

È qui che scopri che il governo dell’Aia, quello che riconosce Amsterdàm come capitale, ti deve suppergiù un duemila euro. È qui che scopri che i cinquecento euri di occhiali con lenti adatte a uno che lavora al compiuter per tornare a casa e accendere il compiuter ti vengono restituiti. Non solo, ma vengono rimborsati al centotredici per cento. Capito bene, il numero dei carabinieri, in più per cento. Roba che il centotredici, per cento, ci deve mandare come minimo il nucleo antisommossa.

Ma compilarla, la Belasting, è come rivivere le tappe dell’Odissea. Presente quando Ulisse arriva a un paio di chilometri da Itaca e, reo di aver bestemmiato Poseidone, fora, torna indietro dal meccanico, trova compagnia e viene trascinato per bar per poi tornare a casa solo la mattina dopo e in stato pietoso, per trovare la moglie circondata di amanti che non ha altra scusa che il corso di cucito?

Mentre aspetti bel bello i tuoi duemilaequalcosa euro ricevi una bustona blu malva. Dici: “Bello, sono arrivati i dobloni. E anche sta bustona, che la teniamo per qualche bambino bisognoso che poi ci fa i lavoretti a scuola”.
La apri e noti subito l’assenza di dobloni in allegato. Leggiucchi la lettera per scoprire che la forma elettronica non va bene. In allegato trovi due libroni in formato A4, uno con novanta domande molto meno spassose di quelle del quiz della naja, l’altro con centinaia di pagine piene di numeri, lettere e caselle da riempire, che potrebbe e non potrebbe essere il libretto delle istruzioni.

Confuso apri la prima pagina del questionario, per scoprire di aver ricevuto il modulo 2008a invece del 2008m. Più tardi scoprirai che alla collega belga è successo il contrario.

Comunque ormai sei lanciatissimo: non ti farai incastrare facilmente. Chiami il numero verde speranza. Dieci minuti di attesa per sentirti dire in olandese che non sono autorizzati a parlare inglese. E qui scatta la seconda parte del corso di integrazione, perché per parlare di burocrazia in olandese con una visibilmente scandalizzata dal tuo stato di non olandese o forse di non parlante della lingua della regina, beh, ditemi voi, se non è integrazione questa. Alla fine passo l'esame e nel giro di tre giorni ricevo l'agognato 2008m.

Ebbene, cercare di riempirlo è diventato un hobby che pratico il sabato sera, al ritorno da lavoro e in altre situazioni di tipo sensibile. Mentre lo faccio mi incazzo come un lupo al quale stanno tagliando pezzi di coscia con forchetta e coltello. Le domande non hanno nulla a che fare con il modulo in linea, il che aggiunge un piacevole retrogusto di confusione.

Proseguo a più riprese, come in un incontro di boxe. Se non mi stendono prima, vincerò ai punti. Resto sulla difensiva, proseguo a forza di attacchi sparuti, rinvio, per dare tutto all’ultimo round, gli ultimi tre giorni di luglio.

Belasting, iscrizione al registro degli immigrati, cambio di residenza e visti per Russia, Cina e Mongolia. Nome, cognome, indirizzo. E intanto le mie giornate durano mezz’ora.

Ma finirà, questa estate che soffoca a freddo. Magari non avrò un lavoro, oppure ne avrò uno che mi toglie la vita, ma riavrò i miei duemila euro e la soddisfazione che il Belastingdienst non m’ha avuto. Non solo, ma ha risolto con toni malva anche il problema tappetino del mouse. Altro che bambini bisognosi.

mercoledì 15 luglio 2009

L'importanza dei tappi dei succhi Valfrutta sulle sorti del mio destino

Quando ero piccolo avevo una specie di timore reverenziale per la persona che sono ora.
Il limite erano i vent’anni. Mia mamma mi aveva detto che la prossima puntura mi sarebbe toccata alla visita di naja, a vent’anni e la soglia era quella, prima e dopo il grande dolore.

Quando ero piccolo avevo paura che a vent’anni mi sarei rinnegato, non mi sarei ricordato niente dell'infanzia e mi sarei vergognato di quello che ero stato.

Ora un po’ mi dispiace per quel bambino timido e saputello, che in fondo non era poi così cattivo. Aveva grandi interessi che duravano per un periodo limitato, nel quale riusciva ad immagazzinare tonnellate di dati sfogliando i libri della biblioteca di casa. Così ai tempi c’erano i succhi di frutta con i tappi con le bandiere del mondo e lui intorno ai 5 anni, in pochi mesi le aveva imparate a memoria, con tanto di nome nella lingua locale, ché l’Egitto a casa sua lo chiamano El Misr e l’Albania Shqipeira (ma lui approssimava a Scopeira).
Poi c’erano stati i passaggi ovvi con calcio, dinosauri, animali e verso la fine delle elementari la specializzazione ornitologica. Verso i dieci passavo ore a sfogliare l’atlante, con particolare simpatia per le nazioni tascabili tipo Sammarino, il Lesotho o Vanuatu. Verso i dodici gli aerei, poi la musica e un paio di altre cose.

Tutte le nozioni scollegate che conosco ora le devo a quel bambino con i capelli biancobiondi.

Così, siccome porello era tanto timido e solitario, ma era anche tanto tenero, ogni tanto gli attribuisco qualche tributo. Mi ripasso le bandiere e quando vedo lo svasso fra le ninfee, nella solita ansa dell’Amstel, penso che se ci fosse stato lui avrebbe fatto salti di gioia, a vedere l’anatra con la testa di volpe.

A forza di succhi e atlanti, sto bambino aveva sviluppato una specie di ossessione per l’estero. All’asilo era estasiato dal suo compagno metà greco, il primo mezzo straniero del paese.

Quando i suoi lo portavano al mare a Lignano Sabbiadoro, osservava con curiosità i bambini tedeschi, con la loro apparenza umana come la sua e le loro vite parallele, fatte di cartoni animati diversi dai suoi e soprattutto scissione dal trinomio imprescindibile Milan-Juve-Inter.

Avrebbe desiderato chiedere a quei bambini “e tu per chi tieni?”, ma la cosa era tecnicamente impossibile. Così quel bambino aveva deciso che un giorno avrebbe imparato le lingue.

Ogni tanto ci penso a sto bambino con gli occhiali di plastica, fatti su misura fin da quando aveva due anni.

E penso che gli sarebbe piaciuto essere al mio posto, vivere all’estero, avere amici stranieri, parlare un paio di lingue sfuse.

Ogni tanto ci penso, dicevo, e per un attimo mi rassereno. Ho raggiunto tutti i suoi obiettivi, anche se nel frattempo non sono per forza anche i miei. Poi penso che forse non è poi così sano raggiungere i sogni dell’infanzia a manco trent’anni.

domenica 12 luglio 2009

La terra dei canali

Constatazione ovvia: un paio di anni fa, quando uno ti scriveva un’email, si aspettava una risposta entro un paio di settimane. Ora, se non rispondi entro due giorni, lo stesso uno ti ha già depennato dalla lista degli amici, quella che gli ha prescritto lo psicologo (quello di Man’s Health) per aumentare l’autostima.

Altra constatazione: mentre cercavo un appartamento in affitto, per la prima volta, ho rifiutato a prescindere quelli dove non era possibile installare internet.

Ultima constatazione, ché dopo un po' sto gioco rompe. Per un mese l’umore dei due occupanti di questo appartamento, fra il canale, la palestra e il minizoo, è dipeso dalla ricettività della rete senza fili.

Poi i due hanno ceduto. Ci siamo comprati il decoder per la tv via satellite, solo perché con una banconota rosa al mese ci davano anche la rete.

E qui ci sono stati smottamenti. Perché nessuno di noi due è capace di stare seduto mezz’ora fermo davanti ad uno schermo, però un giro di zapping ce lo si fa sempre volentieri e con novanta e passa canali, il giro di zapping può investire lassi di tempo inscrivibili nel regime del parecchio.



Io sono uno che GF sono le iniziali della Finanza. Il Grande Fratello ho provato a guardarlo, ma più di mezzo minuto non sono mai resistito. Avrei voluto vederne un pezzo, per sapere di cosa parla la gente, ma se proprio devo vedere una trasmissione per gioire della stupidità dei partecipanti, preferisco di gran lunga il TG2.

Però quando uno ha novanta canali, si immagina che scorrendoli tutti troverà qualcosa di decente.

Spesso non è così.

Per cominciare, dieci sono di cartoni animati americani per bambini iperattivi, di quelli con i personaggi che corrono, esplodono, si trasformano tra botti, frizzi, lazzi e colori fosforescenti.
Poi ci sono i canali musicali. Ovviamente sette su dieci fanno le stesse cose, un altro è MTV, che ormai viene tenuto fra i canali musicali per abitudine, poi c’è quello delle canzoni olandesi e il Brand New, che fa musica che piace a noi giovani alternativi, se solo avessimo ancora diciotto anni (per dire, quello italiano è molto meno peggio).
Poi c’è la catena dei Discovery e dei vari geografici nazionali. Sono almeno venti. Programmazione da aspiranti somministratori di bullismo. Animali: squali, leoni, rettili che mordono, tigri, ragni, scorpioni. Fine, se non uccide non ci piace. Scienza: combustione spontanea, esplosivi, smantellamento edifici.

Il tutto indica che anche sul satellite l’audience conta.

Poi ci sarebbe Arte, che è un canale tedesco/francese dove fanno un sacco di roba culturale. Spesso roba talmente culturale da allontanare qualsiasi possibile spettatore, ma più spesso veramente interessante, ammesso che uno ci si abitui. Ci sono documentari a tema geografico, film europei, approfondimenti e un ottimo telegiornale. Tipico canale che tutti dicono di guardare e nessuno poi lo fa. Però forse qualcuno lo guardicchia anche, anni fa avevo letto che Sky Italia lo aveva aggiunto perché richiesto a furor di popolo. Ho iniziato a darci un’occhiata quando stavo a casa di Baldo, dove era l'unico canale in lingua non olandese. Dopo poco mi ci sono affezionato.

Ma soprattutto, al primo giro di zapping, mi accorgo che l’ultimo canale, immediatamente prima di Playb*y TV, è Rai Uno. Per un attimo mi lascio prendere da un’ingiustificata commozione. Poi parte il primo giro di pubblicità in italiano e capisco. Da allora torno occasionalmente e con circospezione. Vedo cose che non mi piacciono. Cose che credevo di avere rimosso. L'altro giorno, nel mio soggiorno, avvolto dalla fòrmica dell’armadione, è apparso il salotto di Vespa. In un’altra occasione ho sfiorato il sorriso di Carlo Conti, che sembra il musetto della McLaren e per un attimo ho sentito il TG1 dire “E infuria la polemica sull’ennesimo caso di stupro…”

Da allora ci sto attento. Una forza mi attrae verso il primo, che qui è l’ultimo, ma quando poi ho ceduto a sta forza masochista, ci resisto al massimo un paio di secondi. Però le cose vanno meglio. Stasera c’era Quark e ho battuto ogni record, con una ventina di gradevoli minuti di TV.

giovedì 9 luglio 2009

Cose che sono nell'aria

Ci sarebbe come sta cosa, no, che gira nell’aria. Forse neanche nell’aria, in me. Roba che tipo vorrei non essere in me per dire “ah, non è nell’aria, mi sa che deve essere in quello là”.

Roba che uno gira tranquillo, come se niente fosse. E forse niente è. E infatti mi sa tanto che non è niente. E poi però ti giri e sai che c’è.

È il fantasma del lavoro. Ti fai un culo così, perché hanno appena licenziato la tedesca. Il capo le ha detto “guarda, c’ho come sto feeling che mi sa che ma, forse non ci sei poi tanto portata per sto mestiere qua”.
C’è il capo in seconda, il decisore, che la tedesca gli sta sul gozzo dal primo giorno. È che lei se deve dire qualcosa lo dice. E anche tu gli stai un po’ qui al decisore. Tu, ufficialmente reo di non sederti composto. Tu, che il primo giorno di lavoro sei arrivato due ore prima dell’appuntamento.
E ti sa tanto che stai per fare la stessa fine. Anche perché per legge a te, a differenza della tedesca, fra un mese ti devono dare il tempo indeterminato. O niente.

E allora cosa hai deciso, tu, dall’alto della tua bassa posizione? Hai varato un programma in due punti, per te rivoluzionario. Non tanto il primo, dei punti, farti un culo così. Lo hai già fatto, ed è sempre finita male. Sai che non c’è ricompensa al mondo che giustifichi lo stress che ti fa odiare persone e cose che ti circondano. Ma è solo un mese. Tre giorni sono già passati, bene tra l’altro. Meno 17.

La seconda linea, testata venerdì, con successo. Nei film la chiamano sindrome di Stoccolma, io la chiamo empatia. Dì di sì al decisore. Osservalo, anzi non farlo, dà per scontato che dentro di lui ci sia qualcosa di buono, qualcosa che giustifichi il suo comportamento da magazzino. Che in tedesco si chiama lager.

Sei resistito per dieci minuti alle sue storie sull’Africa, sul passato coloniale dell’Olanda, della sua famiglia. Alle battute sulla guerra. Chissenefrega, dico io, della guerra. Solo chi non è mai stato campione del mondo di calcio può dare importanza a vincere una guerra. Io gli do corda, che tanto per Mussolini non è che ci tifassi più di tanto, eh, ma come fa lui a capire? Lui e le sue colonie.

E poi mi viene il dubbio, così, parlando di calcio, oggi, nove luglio duemila e pure nove, che fra l’altro è per la terza volta la festa di San Marco, protettore degli italiani all'estero. Che forse non è emanazione del lavoro, sta cosa nell’aria, o dentro di me. Che non sia più che altro che mi smobilitano il Milan?

domenica 5 luglio 2009

Sulla falsariga del jazz

Ho avuto un’adolescenza ritardata. È scoppiata quando credevo di esserci già passato, più o meno a metà liceo. Mi sentivo maturo, ma ero adolescente. Me ne accorgo ora.

Come tutti i figli di quelle che avevano appena smesso di essere famiglie comuniste ed erano rimaste semplicemente di sinistra, veneravo Kerouac e tutti i suoi amici battuti. Ai tempi ero battuto pur io. Come molti adolescenti, con la vita ero sotto di un paio di gol e per ottenere il pareggio mi ispiravo ad altri. Altri che invece non si ispiravano a nessuno, perché erano loro stessi un modello vincente. E squadra che vince non si cambia, così ogni tanto uno di questi lo rivedi e pensi che sia rimasto uguale ad allora. E quando ci si incontra si parla solo dei vecchi tempi. Lui rievoca i cari vecchi tempi, io rivango e penso che è stato bello, ma mai più, grazie.

Ai tempi mi ispirava l’idea di scrivere, ma non mi passava nemmeno per l’anticamera del pancreas di farlo. Diciamo che progettavo aspettando il giorno in cui lo avrei potuto fare, ma senza ammetterlo, immaginavo che quel giorno non sarebbe mai arrivato. Al massimo me ne uscivo con terribili parodie di America di Allen Ginsberg per i giornalini della scuola. Piccola parentesi: fra i giornalini della scuola, memorabile (per me) “Schifo”, edito insieme al futuro Felix Lalù, con interventi da segnalare dell’altrettanto futuro cantante degli Stone Martens. Memorabile la copertina con l’immagine di una Lady Diana appena defunta, coperta da foglietti con le mille barzellette appena uscite sulla principessa dei tabloid. Fu un preside cattivo cattivo a farci chiudere, e neanche per la Diana, ché quel numero non era ancora uscito.

E come il solito mi sono perso, perché in realtà volevo parlare di jazz. In quei tempi, mi ero comprato Scrivere Bop di Kerouac, l’avevo letto senza capirci una parola, ma era l’idea che mi interessava: scrivere secondo uno stile musicale. È un’idea che mi è rimasta e ogni giorno penso che la prossima volta lo farò, e un giorno lo farò. Intanto aspetto, fiducioso. Ma la verità è che la metrica è noiosa.
Anche diciotto righe fa ero convinto che stavolta, per la prima volta avrei scritto bop, ma tempo di scrivere "Ho avuto" e l'idea è uscita sul terrazzo ed è caduta giù, nel giardino della signora del piano terra, forse nello stagno dei pesci rossi, insieme a cinque fiori rosa secchi e alle unghie delle mie mani, accompagnata dalla convinzione che bop è tutto e niente.

Comunque più che bop, mi piacerebbe scrivere jazz. Non tutto il jazz, non la roba pretenziosa, ma il gezz, quello che mi piace a me, che di tennica me ne sbatto veramente poco, per forza di un orecchio atrofizzato. Tipo che potendo scegliere mi piacerebbe scrivere come Coltrane in A Love Supreme, oppure Duke, Take the A-Train, Caravan, Far East Suite, tutta robetta con un certo ritmo. Miles invece mi dispiace per lui, oppure a chi lo conosce dispiacerà per me, però ci ho provato con Kind of Blue, niente, Sketches of Spain, poco, Birth of the Cool, nulla. Bitches Brew invece mi tira scemo, in senso positivo, ma non sempre uno è in vena di farsi tirare scemo.

Comunque la questione gezz sale alla ribalta perché Orelì I (la mia collega di Galway, non quella di qui. Si sa, i miei colleghi hanno sempre gli stessi nomi) mi ha regalato un libro di Vian, che era uno che scriveva jazz, nel senso della musica, ma anche dei libri. Però come lo scrivesse sto jazz, nel senso dei libri, non della musica, la cosa un po’ mi sfugge, perché per leggerlo ho bisogno di due mani: una per la schiuma dei giorni e l’altra per il Langenscheidt anglogallo giallazzurro trovato al Lidl di Galway per cinque iuro.

Insomma me lo leggevo sta settimana sul terrazzo mentre mi impadronivo del poco sole che scappa dalle tasche parche e bucate dell’estate nordica. Giovedì sera me lo sono portato anche alla spiaggetta di IJburg, ma forse ero un po’ ridicolo con il dizionario del Lidl e il libro in due mani diverse. Da lontano poteva sembrare che leggessi due libri contempraneamente, di cui una poteva essere una bibbia giallo uovo, oppure, beh, un dizionario.

E intanto me lo leggevo, sto libro, e più che gezz ci vedevo alta cucina, è incredibile come i francesi amino parlare di cibo. E di vestiti. E ogni tanto si nominava il vecchio Duke.

Forse è così che si scrive jazz, sparando nomi di artisti. È una caratteristica di questo genere, come basti dire “Miles”, “Trane”, “Duke”, “Bird”, “Mingus”, “Thelonious” per creare un alone di fumiglia neroviola e sentire un sax in sottofondo. Se scrivo “Stones”, “U2”, "Clash" o "Baglioni" l'effetto non è lo stesso. È che il jazz è apparenza più di quanto sembri. Ad esempio, prendi un Coltrane, sono sicuro che sarebbe altamente magliettabile. Morto giovane e maledetto, non sarà il Che o i Metallica, ma lascia perdere, che la sua aura ce l’ha anche lui. Intanto il jazz si accontenta dei milioni di pittori e scultori che esercitano la professione sotto la sua influenza. Sempre jazz e non folk o metal, ché se vuoi essere boemo ci devi passare per forza. E mi sa che alla fine è questo che significa scrivere jazz. Scrivere qualsiasi cosa e dire di averlo fatto ascoltando uno dei nomi soprasparati. Una frase lunga potrebbe essere un assolo, una breve uno di quei “prot” che vengono tanto bene con la tromba. Tutto e il suo contrario, ma fatto ascoltando il giezz e possibilmente buttando là qualche nome di artista.

mercoledì 1 luglio 2009

Disagio

Pensavo alle figure di merda e mi chiedevo se capita solo a me.

Se capita solo a me che ogni tanto riaffiorano. Dal nulla, neanche dal ghiaccio, come gli uomini sul Similaun o dalle fogne, come gli alligatori della città di Gnuiorche. Ti fanno plop nella mente in un momento casuale e sai che tempo una trentina di secondi e svaniranno senza lasciare altra traccia se non un leggero sentimento di inadeguatezza.

Le figuracce di cui parlo non sono quelle importanti, quelle universalmente definibili come tali, tipo quando stavo imitando un professore mentre aspettavo in fila per i biglietti della recita di fine anno accademico, salvo poi scoprire che il suddetto era nella stessa fila, due persone dietro di me. (Una settimana dopo, all'esame di traduzione dal tedesco, non ha infierito).

No, quella che fa male è roba all’apparenza più leggera, spesso neanche riconoscibile come passo falso. Sì, magari ci sono un paio di ragazze abbordate in modo particolarmene goffo durante la mia adolescenza ritardata ai temibili tempi del liceo. Ma quello ci sta, poiché molteplici sono le vie in cui si manifesta Ammore. E poi al tempo ne ho fatte di peggio. Comunque gli episodi sono altri, molto più marginali, come quando al telefono ho raccontato di una cosa divertente che mi era successa ad una anziana zia, credendo si trattasse della molto più giovane omonima sorella di mia madre. E non è che fosse una storia strana o sconveniente, è semplicemente il tono e l’entusiasmo che avevo messo nella voce mentre parlavo con qualcuno a cui mi rivolgevo solo due volte all’anno per gli auguri di Natale e Capodanno. Oppure quella volta che mi è sfuggito un termine collegato agli organi sessuali femminili di fronte a mio padre. E lui è uno sportivo, e anzi, sarà anche stato contento, perché per molti anni ha creduto che fossi gaio. È solo che un giorno a sei anni ho detto ai miei che non mi sarei mai interessato di ragazze e da allora l’argomento tette e figa per me a casa è sempre stato tabbù. Una questione d’onore, ma anche di abitudine. Comunque tremo ancor oggi al pensiero che un giorno il capo possa finire su queste pagine.

Pagine?

Le figure barbine passate mi vengono in mente periodicamente. Io poi, quando non ho niente da fare, ma anche quando faccio qualcosa di noioso, rimugino. Anche per questo temo i momenti di noia, come lunghe pedalate ripetitive in zone non popolate da uccelli, messe e su tutti il lavoro.
Fatto sta che stamattina, mentre pedalavo sulla Van der Madeweg verso il cavalcavia con lo stagno in mezzo, ho avuto uno dei miei momenti-rievocazione-figuraccia-passata. Ormai l’effetto lo conosco già appena il fenomeno si manifesta.
Brivido leggero, tentativo di allontanare l’idea sforzandomi di pensare che la persona si è sicuramente dimenticata dell’episodio, sentimento di disagio che si acutizza fino ad una specie di orgasmo del disagio, immediato ristabilimento dell’ordine con permanenza del già citato leggero senso di inadeguatezza. Il pensiero va e viene da solo. E non posso fare niente per lenirlo o tamponarlo.

È una sensazione scema. So che il problema non esiste, ma non riesco a non tremare di vergogna mentre ci penso. È un sentimento forte, come un attimo di paralisi. A volte mi capita di pronunciare ad alta voce qualcosa sull’argomento, una parola a caso, o una bestemmia mentre sono nella fase dell’orgasmo del disagio. Roba che se c’è qualcuno in giro crede di avere a che fare con un matto, o come minimo si chiede in che lingua parlavo, perché non è che qui parlino proprio tuttissimi l’italiano. Qualche giorno fa ad esempio, mentre articolavo parole prive di senso, dietro di me pedalava lei. Non ha sentito, oppure ha fatto finta di niente.

Ma la peggiore fra le figure di merda è quella nella quale ferisci qualcun’altro. E di queste per fortuna ne ricordo una sola.

In pratica ci sarebbe questo gruppo musicale italiano. Non è uno dei miei preferiti, ma apprezzo molto le storie di cui parlano le canzoni. Anzi, credo che mi abbiano ispirato l’idea di scrivere cose su di me, su argomenti poco importanti. Al tempo avevo scritto un’email alla voce narrante del gruppo, gli avevo raccontato una mia storia, in un certo modo legata alle tematiche di cui parlava lui.
Mi aveva risposto in un attimo, commentando la mia storia e raccontandone una su di lui, una storia con un particolare molto privato, che alla prima lettura mi era sfuggito, o meglio, avevo interpretato il racconto in modo da escludere i particolari personali, convinto che non era possibile che mi volesse svelare cose così private.
A questo punto, preso dall’entusiasmo, gli avevo risposto senza pensarci un secondo, inserendo nella mail uno degli errori più goffi della mia vita.

Gli ho chiesto se potevo pubblicare la sua storia sul mio blog.

Ai tempi tenevo un blog. Un esperimento impacciato, un diario del mio stage ad Amburgo, una cosa andata avanti per due mesi, con gente che mi leggiucchiava solo perché io leggiucchiassi loro. Una collezione insulsa di storielle sul mio capo e i miei colleghi.
E io poi, dopo aver letto sincera delusione nella risposta del musicista e aver riletto il suo racconto, convinto ormai di aver capito bene fin dall'inizio ciò di cui parlava, mi sono sentito così piccolo e meschino, io e il mio blogghettino con i suoi contenuti inutili e le sue divagazioni saccenti su musica e musicisti. Mi sono sentito un insettino senza ali né elitre. Mi sono immaginato lui, che la ribalta la conosceva ancora più no che sì, a rimuginare su quelli che ti adorano solo per quello che rappresenti, ti apprezzano e poi, appena possono prendersi un pezzo di te, se lo prendono e buttano la tua pelle vuota in un angolo. E quello ero io, col mio blogghettino del cazzo, che volevo che tutto il mondo leggesse.

Quel giorno ho abbandonato il blogghettino, non ho più neanche osato accedere e due anni dopo ogni sua traccia è sparita nel limbo degli account inutilizzati. Prima di tornare a raccontare storie sono passati anni. E ho imparato a non scrivere per essere letto.

Nel frattempo, circa un anno fa, è uscito il secondo disco del gruppo. Sembra buono, anche il modo di raccontare le storie sembra più raffinato, c’è più cura nell'esposizione, la musica è più vicina alle parole. Ma non sono riuscito ad ascoltare più di tre pezzi, con una sensazione amara che riaffiora ogni volta che sento la sua voce. Lui che forse ora con i fan ci sta più attento. O forse no. Dopotutto, chi sono io? Quanti altri avranno fatto lo stesso? Ma forse sì e il sospetto basta. Lui con i suoi racconti dolci, amari, sudati, io col mio blogghettino. Che figura di merda. In questo momento spero solo che l’orgasmo del disagio venga rapido e mi lasci presto.