mercoledì 28 ottobre 2009

Soloalbum

Quando mi è giunta comunicazione che stavo per essere piantato, mi attendevo qualcosa di diverso per il periodo a venire. Ho pensato “minchia, ora per un paio di mesi mi ciuccio la depressione con i suoi begli annessi e connessi”.
Invece no. Non è che la cosa sia allegra. La depressione c’è. Magari “depressione” non è un termine esatto, meglio malinconia, la stessa cosa che ti fa ascoltare, che ne so, “Impressioni di settembre” e invece di buttarti giù ti senti meglio.
Ci si sente soli, ma è più una cosa tipo “soli contro il mondo”, quasi eroica, ahimè l’odiata parola. Una cosa stile “belli e maledetti”, non fosse che qualche capello perso e un’infanzia spensierata mi impediscono di essere entrambi.

Ma la cosa migliore è che ti puoi ritrovare in qualsiasi canzone triste e malinconica. “Impressioni di settembre”, si diceva. Ebbene, è successo di settembre (ma qui è solo culo).
Diciamo De André, che per l’occasione è diventato un ascolto ossessivo, “Verranno a chiederci del nostro amore” e “La canzone dell’amore perduto”. Ascoltate nel contesto giusto hanno una potenza di fuoco più che triplicata.

E così ora, che cerco di tenermi attivo, pedalo fra i 60 e i 90 minuti al giorno, da casa al lavoro, dal lavoro al centro e poi di nuovo a casa, e la parte migliore non è quella in cui conosci le tipe, che tanto quando cominci a sperarci tirano sempre fuori il ragazzo, che dai, ammettiamolo, se hai almeno 25 anni, un po’ di cervello e un aspetto decente lo devi avere per forza, il ragazzo, però potevi dirmelo anche prima. La parte più bella non è quella, ma quando torni di notte e ti ascolti la plailista sulla protesi musicale in sella alla bici nuova, che è costata un matrimonio, ma fila che vengono quasi le lacrime.

Ecco, forse sono diventato un solitario. E per l’occasione vado di là a schiaffare sulla plailista “The Loner”.

martedì 20 ottobre 2009

Babiblù

Quando le foglie s’ingiallano, capita spesso che le cose cambino.

Cambia che fuori diiventa freddo e tu mi dici “ma è ovvio” e io ti dico “ti pare poco?”, cambia completamente la disposizione mentale, il palinsesto RAI, i primi allenatori sulle panche delle provinciali, il fatto che la morosa mi ha mollato dopo cinque anni e passa, ma soprattutto cambia la musica.

Ieri sera ho piantato la protesi musicale nel calcolatore, ci tengo a specificare un PC, perché i Mac sono robe da fighetti dell’alternativo, da gente che compra la roba da bigiotteria perché fa la sua porca figura, ho fatto tavola ragia della musica che ascoltavo st’estate e ho messo la roba autunnale.

Fuori l’allegria, dentro malinconia, accordi in minore, testi importanti. E sono sempre i soliti nomi, con una squadra che di anno in anno si consolida.

C’è il vecchio Bobbo, che forse stavolta magari aggiungo un altro paio di dischi ai soliti tre, che non è che lo ammiri poi più di tanto, però capita che in qualsiasi cosa decida di fare ci sia dentro un pezzo di lui, così ho deciso che quest’anno smetterò di dire che non è che mi esalti e anche se lo trovo sopravvalutato, lo celebrerò come merita.

C’è Neil Young, pronunciato Nigliang, che sarà ignorante quanto vuoi, però quando lo ascolti, con quella voce lamentosa da vecchietto in fila alle poste e quel chitarrista caprone che deve avere i segni delle dita sui tasti della chitarra, perché tocca sempre quelli, beh, quando lo ascolti, ti viene voglia di chiuderti in te stesso e bere un tè caldo, proprio come si fa in autunno. Metti Cowgirl in the Sand, un titolo che più ignorante è difficile, mettici che va avanti dieci minuti, con sta chitarra che uno in pratica muove due dita, che suona lei da sola come se facesse mammaomammaomammacheccetoccafapeccampà. Mettici che lui c’ha sta voce, con dietro le foglie che cadono, gialle, arancio, marroni cachi come le giacche degli olandesi. Fa eroico, il sentimento tipico delle 7 di sera in bicicletta sulla via dal ritorno dal bugigattolo cavanervi, dopo aver ammaestrato miracolosamente le esigenze di clienti, manodopera, capo, manager e operation manager.

Poi metti stasera, c’era quella canzone di Tom Waits, quella che dà il titolo a Rain Dogs e c’era sta fisarmonica che sapeva di fumo nella pioggia, fumo dei falò di San Niccolò, di copertoni e refrattari, fumo di città, con l’acqua che amplifica le note acri e sta chitarra che gli diceva chiaramente di star zitto e smetterla di fare l’eroe romantico, che lui ogni tanto sta cosa ce l’ha e ha bisogno che qualcuno gli dica di calare le ali. Come fa Benigni in Giù di Legge, ora che ci penso.

Poi un po’ di gezz, ma solo a casa, non sulla protesi, perché in bicicletta per il Duca non c’è la pazienza, anche se chissà, forse Coltrane potrei magari anche provarlo, un giorno. Ma forse no, la vedo dura con i battiti al secondo. Al massimo quando ho già preso l’onda, la pedalata lenta ma potente del rapporto più duro può reggere il tempo del batterista di A Love Supreme.

E poi mi conosco, verso novembre, quando le foglie non ci sono, e la stagione dei colori lascia il posto a quella nera, in quei momenti scuri mim andranno le chitarre cicaleggianti e il neon impolverato di Marquee Moon dei Television e più tardi, verso Natale, passerò al rosso e al nero del Nick Cave di mezzo. Il punto critico qui è gennaio, periodo grigio, con la luce che esce, ma non ha niente da illuminare. Questo è il periodo in cui ho comprato tutti i dischi dei quali mi sono pentito. Rock progressivo, esperimenti tedeschi, elettronica, certa classica.

Talmente triste che a fine febbraio smetto di ascoltare musica per il mio bene. In attesa che la primavera mi riporti i Ramones.

Comunque, se mi cercate sono qui.

sabato 10 ottobre 2009

Baracco che mi vince il Nobel

Obama non ha ancora fatto molto, a parte essere eletto, ma sa apparire, è un grande oratore. La gente vota i grandi oratori perché ha voglia di sognare.

Ecco, io mi sarei rotto i coglioni, di sognare.