mercoledì 25 maggio 2011

Lettera aperta a Felix Lalù sulle maglie delle squadre di calcio in Africa


Fra le tematiche terzomondiste, una che mi sta particolarmente a cuore è quella delle magliette delle squadre di calcio in Africa. Un argomento che ho approfondito con cura tramite studi sul campo. Ne volevo scrivere dopo essere stato in Senegal, ma poi non se n’è fatto niente. E ora arriva Felix Lalù e mi ciula l’ispirazione.

La cosa non mi stupisce, perché in Africa, quello che ti colpisce sono i colori. E in un buon 82% dei casi, i colori dell’Africa sono quelli di un Football Club europeo.

A livello puramente statistico ti dirò, caro Felix, che se in Marocco ho riscontrato che un 32% della popolazione maschile veste indumenti muniti di sponsor sullo sterno, in Senegal la percentuale si assesta sul 68%, sempre secondo stime fatte leccandomi il pollice. Percui punto mio, palla al centro.

È stato in Senegalche ho visto Cristiani Ronaldi con le tette sotto il bwin e un cesto di frutta sulla testa.

È che gli africani sono affamati di calcio.
Per dire, alla temuta frontiera col Gambia ho fatto baracca col doganiere che aveva una fotina di giornale con Kakà in rossonero. “Milan! Best team, Kakà, Borriello, Shevchenko, Inzaghi, Gatusso, Pirlo, Ambrosini, Maldini, Gilardino [giuro]”. Alla fine però i duemila per passare di là me li ha chiesti uguale.

Affamati ma saziati, e senza l’intervento delle Onneggì. Perché la sera ad Elinkine nella Casamance tagliavano la corrente in tutto il villaggio, e l’unico posto dove usciva luce e suono era un cubo di legno pieno di gente con all’esterno una lavagnetta con scritto “Milan – Napoli, Barcelone – Getafe”. Che poi la partita del Milan non sono riuscito a vederla, ma ho passato i giorni seguenti a chiedere in giro se qualcuno sapeva il risultato.

Senza fortuna, perché alla fine, del risultato non gliene frega un gran che a nessuno. La partita è un’occasione sociale, ci si trova, si ordina una birra, si parla di pesca e si butta anche l’occhio allo schermo. La telecronaca è là per fare atmosfera, niente prepartita, postpartita, interviste analisi moviolone. Niente esperti, perché quello che conta è fare gol e urlare gooool. Il calcio è proprio come la pesca, ingannare l’attesa e festa grande quando abbocca.

Ne consegue che nessuno laggiù è un esperto di tennica. Per questo non vedrai mai in giro un Chiellini o un Lucio, ma solo nomi che fanno gol o personaggio.In effetti gli unici difensori magliettati sono i Terry e i Cannavaro, vale a dire quelli che sai che sono forti perché tutti ti dicono che son forti. Non è un caso, caro Felix, che Villa al Valencia non se lo filasse nessuno. Qui il Valencia si vede solo quando gioca contro la squadra del re o quella degli altoatesini d’Ispagna. E poi si vede il campionato italiano, ma solo le principali squadre a righe. E il campionato inglese non si vede proprio, il che è quantomeno apprezzabile.



Il meccanismo è che le classi agiate (quelle che vivono smerciando roba ai turisti) comprano la maglia nuova, poi siccome sono gente generosa, poracci, quando è ora di comprare il modello nuovo la regalano alle classi appena meno agiate e giù così fino ai ragazzini senza mamma che indossano maglie dell’Inter che dopo anni di sole sono marronazzurre con il Pirelli senza battistrada.

Alla fine l’importante è avere una maglia da calcio, non conta quale. Sempre ad Elinkine ho detto ad uno Shevchenko nero che quella che indossava era la meilleure equipe. Lui mi ha lanciato un sorriso confuso e poi mi ha chiesto di allungargli un millino. Ed è successo più volte. È che la maglia da calcio è più moda che simbolo. Se puoi ne scegli una di il colore che ti piace, ma in principio Franza o Spagna purché se magna.

A Diembéreng, un ragazzino in maglietta spagnola, appena ha scoperto che sono italiano, si è girato per mostrarmi il “Del Piero - 10” che si era scritto sulla schiena col pennarellone.

Ovviamente ci sono anche i casi in cui la maglia ha un significato. Quelle di squadre con giocatori senegalesi (Liverpool per Diop e Marsiglia per Niang, quest’ultimo magliettatissimo, anche se poi si è scoperto che gioca al Fenerbahce già da un anno). Sono importanti anche gli ideali panafricani tanto cari a Gheddafi, con Eto’o e Drogba, ma anche qualche Weah. E poi le maglie dei posti dove si è vissuto, il che spiega l’elevata magliettatura del campionato francese.

E alla fine, per tornare all’ambito statistico, caro Felix, lo sai quale è la squadra più magliettata dopo l’imprendibile Barcellona? Ma quella della figlia del nostro Prez del Conz! Seguita a spalla dai reali di Spagna con un Cronaldo in grande spolvero (con e senza tette) e dall’Internazionale di Milano, almeno in quanto detentrice della Coppa con le Orecchie. Poi direi Marsiglia e Manchester unita. Da segnalare anche un Empoli avvistato ad un remoto crocevia fra Touba e Thiès.

Ma la prima, lo sai Felix quale è stata la prima che ho visto appena sceso all’eroporto? Quella del Cervia, perché il calcio sarà anche globbale, ma la tivvù dippiù.

lunedì 23 maggio 2011

Comodo e lento

Ho detto a Lilù che non è un peccato non aver preso il Tiggivì. Meglio così, non solo perché il trenino costa meno, ma soprattutto perché puoi guardare negli occhi i posti dove passi. Il TGV invece è tutto velocità, tecnologia e business, ha finestre eleganti ma minuscole, bordate da sontuose fasce al neon che deformano la luce che viene dall’esterno.
E a me interessa vedere. Perché la Francia che si conosce è tutta là ai margini del paese a forma di capra scuoiata: la Bretagna, la Costa Azzurra, le Alpi e i Pirenei. Il resto è zona inesplorata.
E io voglio vedere, perché che ostia vai a vedere l’Asia se poi non conosci neanche i vicini di casa?
Sei ore di immagini fra Montélimar e Tours passano comode e tranquille, perfette per colorare le parti finora sfumate della planimetria europea della mia mente.
Immagini di centrali nucleari là a fianco dei binari, giusto sull’altra riva del Rodano, una con un affresco enorme su di un reattore e io che penso a quanto faccia sfigato per il curriculo di un artista, dipingere un reattore nucleare. Si perde tutto il sostegno delle aree riformiste, che come si sa sono quelle che detengono il potere sull’arte. Sarà per quello che l’affresco è scrostato come una versione cilindrica del muro di Berlino.
E poi ci sono le foreste dell’Alvernia, che è una Svizzera piatta di pascoli e foreste. Una specie di Toscana senza Rinascimento né pisani all’uscio: solo paesi di case in muratura solida e staccionate di legno. Vacche e capre con facce da formaggi che esalano l’anima come un’ultima parola da scrivere su di una lapide. Foreste intere di cinghiali. Non è un caso che qui nelle anticamere degli ambulatori si trovino riviste specializzate per i cacciatori di cinghiali.
Campi di cereali colorati si nutrono della Loira mentre circumnavighiamo scogliere bianche a picco sui prati. E sarebbe bello fermarsi nei pressi di Bourges e vedere da vicino quei villaggi di case di mattoni chiari, con camini che terminano in piccole ciminiere di cotto. Case che condividono una parete col monte e spesso hanno capanni o pergole ritagliati nella roccia. Alcune sono addirittura scolpite interamente, pareti rocciose con porta e finestre. Chissà perché. Forse per tenere al fresco il vino o le salamelle. Sarebbe bello chiedere, ma si può solo aspettare di arrivare e documentarsi poi. Questo è il limite del viaggio lento, che ti vorresti fermare ovunque, ma sai di non poterlo fare. Ed è tutto uno spergiuro di ritornare un giorno, chissà.

giovedì 19 maggio 2011

Raccontare cose

Sti giorni scopro che quello che mi piace è raccontare cose. Non storie, che quello, da uno che tiene un bugigattolo come questo da diversi anni, ce lo si aspetta anche. Parlo proprio di cose. E forse non dovrei dire raccontare, ma spiegare, solo che le cose che spiego sono tutte collegate a me in qualche modo. Sono spiegazioni personali, quindi è proprio raccontare.

Mi piace, ad esempio, portare Lilù a vedere il mio paese, la mia valle e la nazione tutta per la quale tengo ai mondiali. Le racconto anche delle filande del mio paese, del castro romano distribuito in forma di mattoni fra tutte le case del paese, ma soprattutto le illustro la planimetria e le tipologie dei bar passati e presenti. Il bar pulito, quello del Gianni e dei punch al mandarino dopo la messa di Natale (che nel paese dove si va a letto presto è alle 9 di sera, mica a mezzanotte come in città). Poi il bar zozzo, quello della Lori col suo vestito zebrato che sembra la tuta della nazionale tedesca di sci, e poi il bar che c’era, quello con la pergola e il videogioco del calcio con tutte le nazionali del mondo. Spendevo sere a guardare gli altri giocare, solo per studiare i colori delle maglie delle squadre asiatiche. Di giocare io stesso non me ne è mai fregato più di tanto.

Le parlo dell'evoluzione sociale dovuta all'introduzione di un secondo supermercato, le spiego che sul campetto dove ora cresce l'erba artificiale noi ci si spellava le ginocchia scivolando sulla ghiaia e come è ovvio e naturale mi sembra migliore quel mio piccolo mondo quasi antico.

Tra parentesi, non lo è.

La porto in malga e sul pratone le racconto di cose che non interessano alla gente di città. Ma io ho voglia di farlo e le parlo di mio nonno che si trova davanti l'orso, di quella volta che abbiamo spaventato un piccolo di camoscio che è caduto dalla roccia e ci è morto davanti ai piedi. Le descrivo l'odore del timo e dell'origano al pascolo d'estate, mentre la gente sbrandella braciole nei piatti di plastica a tre comparti. Poi faccio camminare le sue scarpe di tela sulla neve fino allo strapombo, con il Lago, mille metri più in basso. E lei prima si lamenta, ma poi rimane in estasi

Anch'io ho dovuto andarmene per capire quanto fosse bella la Valle.

La porto al tendone e le elenco le differenze rispetto ai miei tempi, quando in Valle esistevano solo Vasco, il metal e i Nirvana e chi come me voleva fare per forza l'alternativo ascoltava le cassette vecchie di suo padre.

Si mangia tanto, perché anche i genitori hanno la sindrome da ufficio promozione turistica nei posti piccoli e tenaci come il mio. Mia madre toglie gli anelli dal piano della stufa a legna e ci infila il paiuolo di rame, perché è importante che la gente sappia che la polenta vera non è che la puoi fare nell'acciaio inox. Sfilano vini locali, lucaniche e formelle, pane alle cipolle e succo di sambuco.

E poi è meglio tagliare di netto, decidere all'ultimo che fra due ore si prende il treno per Milano, vedere Milano per la prima volta al sole e pensare che non è un caso, vista la concomitanza elettorale.

E poi un altro treno, un confine nuovo di cui avevi letto sui giornali e un poliziotto col pizzetto ricamato che assicura ad un uomo dai tratti precolombiani che anche se lui non può farlo, ci penseranno i francesi a rispedirlo in Africa.

E poi la situazione si ribalta, ora sono io l'ospite, quello a cui si raccontano le storie, quello che si dovrà abituare alla tastiera AZERTY.

domenica 15 maggio 2011

Cose in chiaro

Ecco, mettiamo le cose in chiaro. Perché ho sentito gente parlare di sogni e qualcuno (Matteo Caccia, su Radio 24) mi ha anche chiesto se sono un hippy.

No. Non credo nel seguire i sogni. Magari l’ispirazione, ma i sogni no. I sogni sono americanate e poi lo sappiamo tutti che una volta realizzato uno ne devi trovare uno nuovo per sostituirlo.

Mi è sempre piaciuta l’idea di viaggiare, ma i sogni sono altri. Sono cose tipo essere pagato per dormire, avere una nazione intera che ascolta le tue opinioni, la fine delle mafie o il loro trasferimento in Scandinavia, il Milan che vince altre 3 coppe con le orecchie o l’Italia governata da un tiranno illuminato per almeno 30 anni.

Se ho lasciato il lavoro e sto per partire per un periodo indefinito è perché se ne parlava con Lilù e lei ha detto “facciamolo”. Appurato che non stava parlando di sesso, c’ho pensato e ho detto di no. Poi un giorno mentre facevo tutt’altro ho realizzato che anche nel caso in cui andare fosse un errore, ci guadagnerei comunque qualcosa [vedere il mondo, N.d.T.]. La mia era una di quelle che il mio capo avrebbe chiamato "win-win situation" e a quelle cose là non puoi mica fare che no.

Così alla fine si va, altro che sogni.

lunedì 9 maggio 2011

Compressione

Come ogni volta che ho un problema irrisolvibile, mi guardo indietro alla fine, quando il problema è risolto, e penso che ho avuto culo. In realtà era il problema ad essere meno irrisolvibile di quanto sembrasse.

Nulla di grave, ma nei momenti in cui non hai problemi, te ne devi pur trovare uno, per rendere la tua vita un po’ più simile a un film. È che la vita senza trama non fila, e per la trama serve un problema da risolvere.

Così alla fine sono riuscito a piazzare tutto. I colleghi si sono aggiudicati due delle biciclette e lo stereo. E Robin era felice come una Pasqua perché gli ho regalato la piastra per fare le cialde. La Greca ha visto l’annuncio su Facebook e si è comprata la bicicletta da rottamare e uno dei mobili dell’IKEA, lo scrivo giusto perché poi la gente dice che Facebook è solo per i voglieri. Il resto è andato tramite vari siti olandesi, con una ragazza olandese dall’aspetto ben più leggiadro del suo nome (Chantal van Seguonotroppeconsonanti) che alle 23 del giorno prima della partenza ci libera delle adorate sedie turchine.

E ci libera di un problema non da poco, perché a quel punto ancora non lo potevamo sapere, ma la Zafira presa a noleggio non aveva spazio per tutti i nostri tesori. O così sembra all’inizio, perché dopo ore di tetris con casse e scatoloni siamo riusciti ad ammassare tutto. Tutto. Tranne le sedie turchine, che non ci sarebbero state.

Quella che alle 15:52 si immette sulla tangenziale dall’uscita 102 in direzione Utrecht è una cassa motorizzata senza un centimetro di spazio vuoto, vanto delle più moderne tecniche di gestione dello spazio e delle risorse. Sedili avanzati al massimo per non sprecare neanche un centimetro cubico e le mie cose da bagno che urto ogni volta che tiro il freno a mano.

L’ho già scritto, ma mi piace: una lumacchina con tutti i nostri averi. Basterebbe una curva sbagliata sulla strada verso Parigi, un sorpasso senza guardare bene lo specchietto retrovisore destro (quello centrale è inutilizzabile per via del carico) e tutte le cose al mondo a cui teniamo andrebbero perse. Come investire il tuo conto in banca in una maratona di videopoker.

Portiamo il nostro mondo a San-Lupo-della-Foresta, nella periferia di Parigi, a casa della madre di Lilù. Solo la parola “Periferia di Parigi” è in grado di destare immagini di terrore ed auto bruciate nell’innocente immaginazione di un ragazzo di campagna, cresciuto fra caprioli e vicini che al massimo della crudeltà ti versano il diserbante nell’atomizzatore. L’immagine di una delle più grandi città d’Europa, laddove la legge è nelle mani del più forte e di chi sa rappare meglio, è fissa nella mente del vostro bucolico scrivano, ma dopo centinaia di chilometri sulle fitte autostrade dell’Olanda e del Belgio, dove ogni chilometro c’è una grande città e quindi uno svincolo, le strade francesi sono un sospiro di sollievo a tre corsie vuote. E l’entrata nella pancia del Lupo avviene attraverso la foresta che gli dà il nome. Si sale su di un pendio fra abeti alti e fitti e solo dalla cima si vedono le luci della grande città. Ma questo non ci tange perché ancora un chilometro e siamo arrivati.

Sono le 22.30, la notte è scesa proprio nel bosco e ora l’unico problema è comprimere il contenuto del nostro appartamento in un appartamento poco più grande. Una giornata all'insegna della compressione.

venerdì 6 maggio 2011

Sprizzetto

Lassù sotto il livello del mare, essere italiani è come andare in giro firmati. Non vestire firmato, ma essere firmati, come se sulla copertina del nostro passaporto ci fosse scritto Gucci.

Per loro l’Italia è un po’ come quei paesi tropicaldi, con la fondamentale differenza di essere raggiungibile in camper e di poterci mangiare bene senza rischiare la sciorta.

Però a differenza di quello di Gucci, il marchio Italia può essere falsificato legalmente. Nascono così fenomeni come la pizzeria Jovanny e il suo pizzarolo che, curioso mentre fotografo la sua insegna, mi chiede delucidazioni in una lingua finta che suona simile all’italiano e serve per non rivelare ai clienti le sue origini berbere.

Non è un caso che per gli olandesi il tipico italiano abbia un profilo un tantino più magrebino del reale.

Allora fra amici si è pensato di rendere giustizia allo stereotipo e magari farci anche un paio di dobloni, sfruttando il passaporto con l’ingranaggio e la stella che testimoniano la nostra denominazione di origine protetta.

Così s’è deciso di vendere spritz nel giorno della regina, il più arancione dell’anno. Roba che al carnevale di Ivrea per raggiungere un effetto vagamente simile devono spremersi le arance sul naso. Un banchetto rossobiancoverdearancio in una spremuta d'arancione.

Nel giorno della regina non si celebra tanto la vecchia Beatrix, ma piuttosto l’attitudine commerciale dei suoi sudditi: i figli dei mercanti delle Indie orientali e delle Antille vendono per strada tutto quello di cui vorrebbero disfarsi, oppure inventano trucchi fantasiosi da due euro al colpo, tipo cappelle a gazebo per finti matrimoni, cani travestiti dal leoni in posa per fotografie, agenzie matrimoniali improvvisate. Cose del genere. Cinque euro di guadagno e si festeggia bevendone dieci.

E noi là, pronti a soddisfare il fabbisogno alcolico della situazione. L’idea è geniale, ed è ovviamente sua, perché anche i genovesi sono un popolo di mercanti. Al banco il nocciolo duro della Confraternita dell’Asino Morbido e alcuni italiani veri (senza chitarra in mano, ma con domicilio nella zona giorno d’Europa, dove le Alpi fanno da diga alle nuvole gonfie d’acqua).

Come da tradizione, si comincia con qualche giorno d’anticipo, scegliendo un posto comodo lungo le vie del Jordaan e scrivendo in terra la parola BEZET, la stessa che si dice quando uno bussa alla porta del cesso mentre stai purgando il tuo corpo dai residui alimentari.

E poi il giorno dell’evento basta essere là la mattina presto, che considerando gli imbibimenti della nottata precedente è verso le 11. Si monta un banco di legno con due cavalletti e ci si stende davanti un filo per il bucato, con tre magliette nei colori del patrio vessillo appese con le mollette. Dietro di noi è bene affiggere uno striscione che specifica che il nostro prodotto è italiano, ma anche arancione (segno di deferenza, integrazione e socialità). Per ricordare che la cosa è alcolica, basta mettere le bottiglie di Aperol bene in vista.

Poi basta sbraitare come piazzisti, in olandese fortemente accentato, tranne nel caso di Antò, che essendo per metà autoctono ha un accento troppo corretto per passare come italiano.

In poche ore le monete bicolori con la faccia della festeggiata fioccano come proiettili in un film del governatore della California. E fioccano anche quelle con la faccia di Dante, perché i turisti ci tengono a scoprire se la firma è originale o solo un altro tarocco legale come quello di Jovanny.

Sprizzetto (perché senza la vocale finale non sembra italiano) va via come il pane azzimo ad una messa in San Pietro. Dopo 4 ore ci troviamo con più di 150 euro che decidiamo di reinvestire sul territorio, sussidiando imprese locali quali Amstel, Bavaria ed Heineken.

Il giorno più arancione, il terzultimo prima di andare via con una lumacchina con tutti i nostri averi nel guscio.