giovedì 30 giugno 2011

Cibo

Mai mangiato bene come qui, in questo paese di cinesi e indiani. Lo scrivo perché so che la gente ste cose se le chiede, ma anche perché è così. Perché poi, le battute sono sacrosante, ci mancherebbe, ma anche se i cinesi mangiano cani, lo fanno con un sughetto che parla. Quanto agli indiani, puoi concedergli tutti i ratti delle fogne della città un tempo nota come Calcutta, ma se me li affogano in curry come quelli che mi hanno scottato il palato recentemente, beh, io la firma ce la faccio anche piuttosto volentieri.

Spesso però rimani spiazzato. Fra tutte le erbe, le spezie mai viste prima, frutta e verdura identificabili solo previa perizia biogenetica, ma anche preparazioni speciali di alimenti conosciuti, o soprattutto abbinamenti apparentemente inconcepibili. Per fortuna direi, che si rimane spiazzati, che se no che gusto c’è? Metti l’ABC. Fra un anno cosa ricorderò, quel curry al pollo che mi ha fatto capitolare gli organi sensoriali, ma che avrei trovato anche all’indiano di via Garibaldi, o l’ABC? La risposta è forse tutti e due, ma probabilmente l’ABC. No, perché l’ABC è una di quelle cose che appena le finisci ti senti tronfio d’esperienza da intavolare in giro per ostelli o salotti al ritorno, oppure da raccontare su bugigattoli come questo.

Perché Ais Batu Campur, nome in codice ABC, è un gelato coi fagioli. No, non quelli dolci, proprio come i borlotti, ma più piccoli. E non basta mica così, perché per fare la cosa più grossa e scrofiforme, ci si aggiunge anche qualche filo verde di gelatina come piace ai cinesi e ovviamente una ventata di chicchi di mais in scatola, che qui nei dolci non mancano mai. E poi ci sarebbe da disquisire sul gelato, che non è mica roba da cremeria come là da voi, è ghiaccio tritato pieno di sciroppi ai gusti cinesi (roba tipo tamarindo, gelatina d’erba e se Iddio vuole crisantemo). E tu mi dici “che schifo” e a parte il fatto che lo direi anch’io se fossi là dalla tua, io ribatto “poffarre”, perché in quindici minuti di ABC le mie papille gustative hanno scoperto assetti che non avresti detto mai. Perché se ci pensi bene, se ti ci concentri, il mais nei dolci non ci sta male. Provalo ancora due volte e vedrai che ti ci abitui. Ai fagioli magari concedi un paio di tentativi in più. E a quelli che vanno nel Borneo a fare i corsi da sopravvivenza, io dico di posare le larve di cicala e partire dalla base. Sarà mica per questo che l’hanno chiamato ABC?

mercoledì 22 giugno 2011

Kuala Lumpur

L’aereo è una camera di passaggio, come quelle che trovi per entrare in una serra a temperatura controllata, o nella banca del tuo paese. È un luogo che non esiste: quando sei in aereo non puoi dire dove ti trovi (che sia per quello che non ci puoi usare il telefonino?), fuori vedi paesaggi che sembrano Google Maps e anche se ti concentri, fai fatica a convincerti che sia reale.

Serve per prepararti, per minimizzare lo shock. Hai 13 ore in un ambiente senza fuso orario, fresco d’aria condizionata, con una scatoletta d’alluminio di riso e carne e tanto tempo per provare ad immaginare il posto dove sbarcherai.

A me piace dopo: quando esci e devi ridefinire la taratura del tuo corpo. Credevi fosse ora di andare a letto e invece sono le 5.30 di mattina. La gente intorno a te è ancora insonnolita, mentre tu andresti a farti una birra prima di andare a letto. E comunque per la birra è dura, perché da ste parti qui la religione dice che è immorale. Una birra, dico una, che ci vorrebbe proprio, perché varcata la soglia della carlinga non puoi più respirare. Sei coperto di sudore ancora prima del fondo della scala, e sai che è un sudore che durerà mesi.

Ritirata la valigia è il momento di sapere come e quanto spende qui la gente. La moneta si chiama Ringgit, ci vorrà un po’ a memorizzare, sì, ma se me ne chiedono 10 per un autobus per il centro è tanto o poco? Intanto sei fuori dall’aeroporto, e questo è il momento più bello. Tutte le novità che non hai ancora incontrato ti saltano addosso in un colpo. I taxi sono rossi e blu, con una mezzaluna sopra, l’odore è tropicale. Sì però non tropicale verace, come i frutti esotici al mercato, è tropicale artificiale, perché hanno appena lavato il corridoio esterno, con detersivi con aromi mai sentiti. Vedi in anteprima le versioni da aeroporto dei cibi che mangerai per i prossimi mesi e ovviamente non ne comprendi ancora la composizione. Intanto per strada vorresti strapparti di dosso tutti i vestiti, già appesantiti da sudore liquido che scende a gocce. I semafori non diventano mai verdi per i pedoni, le macchine non ti lasciano attraversare, i numeri degli edifici esistono, ma non vanno in ordine. Nel caos ci metti un po’ a realizzare che guidano a sinistra.

Qualche residuo alimentare in terra e il gas di un autobus reso nervoso dall’età che ti investe in una nuvola ancora più calda e grigia di quella meteorologica alla quale ti dovrai abituare. Alla fine l’ostello lo trovi, ci eri già passato davanti, ma non c’era scritto il nome.

Entri, è più caldo che all’esterno e c’è un rumore d’inferno d’acqua che scroscia nei bagni e nell’enorme acquario dell’atrio. Ti mostrano una stanza con una luce fioca e un materasso. È disponibile e tu hai già smesso di pensare alla birra o al sonno: non vedi l’ora di farti una doccia e rivestirti per vedere di cos’altro ridere, stupirti e scandalizzarti.

mercoledì 15 giugno 2011

Invece di leggere poesie

È domani mattina che parto. Kuala Lumpur, che è in Malesia, poi si cercherà di immergersi con calma fino al fondo dell’Indonesia e fra 3 mesi si va in Australia.

Negli ultimi giorni avrei voluto parlare di cose. Cose come passeggiate lunghe ore nelle campagne della Lot, senza vedere nessuno. Papaveri sì, tanti, ma umani nessuno. Cose come che ne so, Tolosa che dicono sia la città rosa e poi ci arrivi e ti sorprendi che sia rosa davvero, che in quanto uomo moderno sei abituato che quello che ti dicono dei posti non è mai vero del tutto. È come al supermercato, che credi di pagare 1 e invece è 1,99 che vuol dire 2. Tolosa è 2, e quel centesimo in più sei felice di pagarlo.

Cose come Nizza che ci ero passato in Interrail, giusto il tempo di dormire sull’asfalto davanti alla stazione e passare la giornata a guardare la spiaggia da fuori. Dicevi Nizza, vista. Invece avevi visto la spiaggia. Da fuori.

Cose come Genova affrescata dai Non. “Non” che vuol dire Nonglobali, ma anche Nontutto, scritte sui muri contro tutto e tutti, che ti chiedi come fa sta gente a conoscere così bene la situazione in Palestina, Paese Basco, Kossovo, TAV e quantaltro e poi concludi che non è frutto di giornate passate a leggere Carta e Internazionale, ma basta semplicemente prendere di default la posizione contro.

Ma la frase più bella, che al non leggere Carta e Internazionale aggiunge tanto tenero lirismo, la leggo sui muri piastrellati della Metro di Parigi:
“Non inquinare volando, resta a casa e leggi poesie”.

È con questa che me ne vado. Vado e resto qui, perché sul bugigattolo voglio continuare a scriverci.

Vado. In aereo, e in culo alle poesie.

martedì 7 giugno 2011

Siparietto filosofico

Scopro che non mi piace quando la gente ha un obiettivo nella vita. Con l’accento sull’uno, non sull’obiettivo. Una cosa sola a cui pensare, l’unica di cui parlare o che valga la pena di conoscere.

Qualcuno programma in Linux, altri ascoltano gruppi che noi umani scopriremo fra un anno e dimenticheremo un mese dopo, poi ci sono quelli che passano il tempo fra i fornelli e la tavola da pranzo e gli altri che lasciano tutto per sedersi a gambe incrociate in qualche luogo sacro dell’India. Ci sono anche quelli che vogliono solo viaggiare ed è un peccato parlarne ora, perché presto ne incontrerò a charterate.

In questa sede invece si preferisce evitare di fissarsi su di una cosa, per non perderne di vista altre. Un piede in una miriade di scarpe, sapendo che non è umano essere un millepiedi e che il risultato sarà una poliedrica ignoranza. Ma alla fine definirsi o definire ignoranti significa sovraestimare il genere umano, presumere che sapere sempre tutto di tutto sia non solo possibile, ma logico.

Il messaggio è: vedete un po' voi.

mercoledì 1 giugno 2011

Sindromi a Parigi

Dopo due settimane qui, non riesco più a vedere i francesi come il nemico. Non so se è una sindrome di Stoccolma dirottata su Parigi, ma sembra che la gente qui sia piuttosto simile a noi, addirittura amichevole.

Forse non dovrei immedesimarmi così nel nemico. Forse è solo un’illusione, probabilmente era un sogno, quel programma in TV con Cantonà che fa l’apologia di Materazzi e spiega che è normale che uno che è rimasto senza madre da piccolo insulti la sorella degli altri. Non con queste parole, ma simile.
Sì, devo averlo sognato. Forse è meglio che mi sforzi a ristabilire le distanze, a concentrarmi sulle differenze.

Tipo i bagni, ecco, in quelli non mi ci riconosco. Che a fini di studio o meno sono stato nel Sud, al Centro e ora anche nella Banlié di Parì e ovunque fossi ho sempre fatto fatica a pisciare. Perché il cesso è sempre in uno stanzino indipendente, il più lontano possibile dal bagno e senza altra acqua che quella dello sciacquone. E io, che vengo dall’unico paese al mondo dove si usa il bidet, non sono pronto ad accettare un tale segno di degrado. E non basta il fatto che qui abbiano docce che sono più grandi di qualsiasi appartamento in cui abbia vissuto negli ultimi dieci anni, con tanto di manopola per impostare la temperatura esatta. Serve solo a suggerirmi il sospetto che i Galli piscino nella doccia di nascosto. Ecco, deve essere così, di nascosto.
Osserva Lilù che è da questo che trae origine il termine internazionale Toilette. Perché qui se chiedi dov’è il bagno, la gente crede che tu voglia lavarti, o forse che cerchi una doccia per pisciarci dentro.

È che con tutto quello che si mangia, è normale che uno poi sogni Materazzi. Tutta sta carne. Fredda. Fredda, come i mongoli di Gengiscan, che però almeno avevano l’eleganza di mettere prima le bistecche sotto la sella per frollare un po’ la carne. E non ditemi che qui selle non se ne vedono, che con tutte le macchine che producono non ci vorrebbe niente a creare un tascone per la carne sotto i sedili.

E per nascondere le loro crudeli pecche ci tengono a farsi passare per gente di un certo livello. Che quando entri nei negozi, dalla cassa ti salutano chiamandoti messiedàm, che è come se la cassiera del Lidl dicesse “Buongiorno gentili signore e signora”, invece del solito “ngiorno”. Ah, e l’altro giorno una negoziante ci ha lasciati con un “Arrivederci, vi auguro una splendida giornata”, roba che quando aveva finito di srotolare la frase eravamo già entrati nella metro. Lilù dice che poteva andarmi peggio, che lei quando lavorava in una buàt di traduzioni qui in giro, la mattina con gli occhi gonfi di sonno le toccava passare e dare bacio destro e bacio sinistro a tutti i colleghi. Si chiama “La Bis” e per loro è segno di civiltà. Per me è solo un’arma in mano agli untori, con tutte le malattie che girano.

Ma c’è qualcosa che mi impedisce di trovare insopportabile questo popolo. Sarà che è periodo di revisionismo storico, penso anche ai milanesi ai quali si comincia a voler bene dopo le ultime elezioni comunali.

O forse lo sono davvero, un popolo civile. Non so cosa me lo faccia pensare, credo sia il fatto che dicano Flamìni e non Flaminì come facciamo noi perché crediamo che lo facciano loro.